Il progetto di bilancio pubblico per il 2024presentato dal ministro delle Finanze Lindner, e approvato dal Governo, avrà impatti anche fuori dai confini della Germania. L’idea è quella di tagliare le spese di oltre 30 miliardi di euro (circa sette punti percentuali), salvaguardando alcuni capitoli come la difesa, ma colpendone altri non marginali come l’istruzione e i trasporti. Il tutto mentre il Paese è in recessione tecnica. «Oltre alle cifre – ci dice Gustavo Piga, ordinario di Economia politica nell’Università di Roma Tor Vergata – sono anche alcune espressioni utilizzate dal ministro Lindner ad apparire piuttosto allarmanti».
Per esempio?
Si ritiene necessario tornare alla “normalità”, dando per conclusa la straordinarietà della crisi. Sarebbe in effetti sensato frenare la spesa pubblica, con una politica fiscale anticiclica, nel momento in cui ci si fosse lasciati alle spalle un periodo di difficoltà con una vigorosa ripresa. I dati, però, ci parlano di una Germania che continua a essere il malato d’Europa, principalmente per via dell’interruzione degli approvvigionamenti energetici russi e di un’elevata inflazione.
Non è eccessivo definire la Germania “malato d’Europa”?
Se guardiamo ai dati Ocse relativi al periodo 2020-23, per l’economia globale si prevede una crescita dell’8,7%, per quella della Cina del 19%, per quella degli Usa del 6,2%, per quella dell’Eurozona del 3,2%, per quella dell’Italia del 3%, mentre per quella della Germania dello 0,4%. Un economista, di fronte a questi dati, direbbe che non è tempo di ritorno alla “normalità”, perché la Germania ha ancora un enorme bisogno di riprendersi. C’è poi un’altra espressione che lascia perplessi.
A che cosa si riferisce?
Il ministro Lindner parla della necessità di far cessare una maxi-spending che ha fatto salire il debito pubblico.Guardando ai dati, possiamo osservare che il rapporto debito/Pil è passato dal 59,6% pre-Covid al 67,6%. Si tratta di un aumento irrisorio, da un livello già basso, alimentato oltretutto anche dal rallentamento del Pil. Vien quasi da sorridere pensando ai livelli raggiunti negli altri Paesi di tutto il mondo: altro che maxi-spending, probabilmente si è speso troppo poco. Tra l’altro, i tagli colpiranno anche la mobilità sostenibile, tema molto caro all’Ue, in un Paese che poi di fatto detta la linea per tutta l’Europa.
Quali ricadute avrà questa dose di austerità tedesca sul resto d’Europa?
Ci sarà evidentemente un’esternalità negativa per tutta l’Eurozona, che già dovrà fare i conti, stando alle previsioni Ocse, con una crescita tra il 2020 e il 2023 pari a circa la metà di quella degli Stati Uniti. Ogni volta che il Paese leader impone austerità, di fatto riduce le potenzialità di crescita di tutti gli altri.
E si sta anche discutendo la riforma del Patto di stabilità e crescita…
Non è ancora chiaro che cosa si pone all’orizzonte in termini di nuove regole fiscali. Certo è che, ormai dalla crisi del 2008, in Europa siamo inviluppati in una serie di costante capacità di decidere in maniera perversa. Fortunatamente l’Italia non ha ancora ratificato la riforma del Mes.
Ritiene che sarebbe bene non farlo?
Ringrazio ancora la visione di lungo termine che ebbero a suo tempo Regno Unito, Repubblica Ceca e Svezia quando si opposero all’inserimento del Fiscal compact nei Trattati: questo ci ha salvato e ci consente oggi di poter parlare di riforma delle regole fiscali. Il fatto che l’Italia non abbia ancora ratificato la riforma del Mes, che all’interno prevede clausole di condizionalità macroeconomiche analoghe a quelle del Fiscal compact, è secondo me cosa buona e giusta. Siccome, però, mi sembra che l’intenzione sia poi quella di procedere alla ratifica entro fine anno, a questo punto diventa rivelantissimo quello che si può ottenere in cambio nel dibattito relativo alla riforma del Patto di stabilità. Devo dire, tuttavia, che su questo non mi sembra che ci sia un progetto di lungo periodo da parte italiana.
L’Italia continua a chiedere di escludere gli investimenti, quanto meno quelli relativi alle transizioni ecologica e digitale, dal computo dei parametri chiave del bilancio pubblico…
Stiamo chiedendo qualcosa che alla luce dei fatti non siamo in grado di mettere in atto. A cosa serve chiedere una golden rule per gli investimenti se poi, come abbiamo ancora plasticamente dimostrato, non sappiamo assolutamente spendere i soldi quando sono disponibili?
Qual è a suo avviso la criticità che non consente al nostro Paese di spendere le risorse?
Ho trovato piuttosto impressionante l’andamento dell’occupazione nel periodo 2020-23 nell’Eurozona: è cresciuta del 4%, con una grande spinta da parte della Francia. La cosa più interessante è che ovunque l’occupazione è trascinata dal comparto pubblico, tranne che in Italia. Com’è possibile immaginare di affrontare la sfida rappresentata dal Pnrr, pensando solo alle persone necessarie a metterne a terra i progetti, con lo stesso personale pubblico depauperato che ci portiamo appresso da un decennio? È evidente che poi diventiamo un attore poco credibile nelle nostre richieste. Ci troviamo veramente all’interno di un’Europa sclerotica.
Cosa intende dire?
Se ci pensiamo bene c’è un Paese come l’Italia che ha una marea di risorse a disposizione, ma non sa usarle bene, e un altro Paese come la Germania che sa come spendere i soldi, ma decide di non farlo. Stiamo facendo quanto di più contrario a ogni logica di politica fiscale ci sia. Questo la dice lunga su quanta strada ci sia ancora da percorrere per comprendere le sfide del XXI secolo. L’Eurozona continua a essere l’area più succube a ideologie terribilmente poco attente ai bisogni della gente e delle future generazioni e questo finirà un giorno per impattare sulla sostenibilità del progetto politico europeo stesso.
Al momento c’è una situazione di stallo sulla riforma del Patto di stabilità e crescita: Francia e Italia sostengono la proposta della Commissione europea, mentre la Germania vi si oppone. Lei cosa ne pensa?
La battaglia che la Germania sta conducendo contro la Commissione europea per avere delle regole che non siano così arbitrarie da lasciare spazio al potere politico dell’organo tecnocratico che ha sede a Bruxelles non mi trova totalmente contrario. Berlino chiede dei criteri oggettivi e offre una riduzione lenta, ma costante del debito su Pil dell’1% annuo: se fossi l’Italia guarderei con interesse a questa proposta, perché si parla di un obiettivo traguardabile senza austerità, ma anzi tramite investimenti pubblici sani in deficit che fanno scendere il rapporto debito/Pil grazie a una maggiore crescita. Certo, i tedeschi chiedono anche il solito controllo assurdo, ma coerente con il piano presentato da Lindner, della spesa pubblica, senza fare distinzioni tra investimenti e spesa corrente. E questo non va bene per l’Italia.
Come se ne esce allora?
Si potrebbe trovare un punto di incontro, dicendo alla Germania che ci sta bene la riduzione dell’1% del rapporto debito/Pil, lasciando però spazio agli investimenti pubblici. Occorrerebbe poi attuare una vera spending review per garantire una qualità della spesa pubblica. Questo potrebbe essere un pacchetto virtuoso che farebbe contenti tutti, con l’eccezione forse della Francia. Le soluzioni, come si vede, ci sono, ma continuiamo a essere un continente che guarda ai dettagli contabili piuttosto che alla grande visione d’insieme in un secolo che appare veramente sconvolgente. Le lezioni della storia ci dicono che se non si fa attenzione al bisogno delle persone più in difficoltà, poi accadono rivoluzioni o cambiamenti istituzionali potenti. Mi sembra che i nostri leader siano incapaci di capirlo.
(Lorenzo Torrisi)
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