C’è attesa per due appuntamenti europei chiave di questa settimana. Il primo è il Consiglio direttivo odierno della Bce, che dovrebbe approvare un taglio dei tassi di interesse, anche se non si sa con quale intensità procederà poi il ciclo di allentamento della politica monetaria restrittiva. Il secondo sono le elezioni europee, al via oggi in Olanda e che proseguiranno negli altri Paesi membri fino a domenica. C’è incertezza su quale sarà la maggioranza che esprimerà la futura Commissione. Intanto, in un editoriale sul Financial Times, Olaf Scholz ed Emmanuel Macron, rappresentanti dell’asse franco-tedesco da tempo indicato come guida dell’Ue, hanno delineato l’agenda per i prossimi cinque anni, chiedendo un rilancio della competitività, una riduzione della burocrazia, il proseguimento della decarbonizzazione del sistema energetico, il potenziamento del mercato dei capitali e del bilancio comune dell’Ue anche tramite nuove “risorse proprie”, come avvenuto in occasione del varo del Next Generation Eu. Abbiamo chiesto un commento a Gustavo Piga, Professore di Economia politica all’Università di Roma Tor Vergata.



Professore, cominciamo dalla Bce: oggi dovrebbe arrivare un taglio dei tassi di interesse atteso da diversi mesi.

Sulla politica monetaria c’è poco da dire, i dati sono chiarissimi: non è mai stata così restrittiva. I tassi reali, a causa anche del calo dell’inflazione dovuto in parte alle stesse scelte della Bce, sono ai massimi. Sarà interessante vedere con quale velocità il sistema bancario, a fronte dell’atteso avvio del ciclo di riduzione dei tassi di interesse, renderà le condizioni del credito meno restrittive.



Basterà una politica monetaria meno restrittiva a ridare slancio alla crescita economica?

La politica monetaria può aiutare, ma se raffrontiamo la performance economica dell’Eurozona con quella degli Stati Uniti vediamo che dal 2020 al 2024 su questo lato dell’Atlantico il Pil crescerà del 3,8%, mentre Oltreoceano del 9,4%. Siccome le politiche monetarie sono state restrittive in ambedue le aree, è ovvio che la vera spiegazione di questa diversa crescita è data dalla politica fiscale, che negli Usa è estremamente espansiva, mentre nell’Ue è estremamente restrittiva, anche se in misura inferiore rispetto all’inizio dello scorso decennio.



A suo avviso, da cosa deriva questa diversità di politica fiscale tra Usa e Ue?

Da un’enfasi politica focalizzata su variabili completamente diverse. È sufficiente effettuare un rapido lavoro lessicale sull’intervento congiunto di Scholz e Macron pubblicato dal Financial Times: invano si cercheranno parole come “occupazione”, “disoccupazione” e “salari”, che non vengono mai utilizzate. La parola “competitività” è invece menzionata sette volte, mentre “mercato” ben undici. Di “Stato” si parla soltanto quando si chiede di tagliare la burocrazia. Biden, invece, nei suoi discorsi è attentissimo a mettere al centro dell’azione della politica fiscale della sua Amministrazione la questione dell’occupazione e dei salari. Il Presidente americano è conscio che si tratta di temi cruciali, mentre l’Europa non sembra rendersi conto della propria fragilità politica. In questo senso credo che nelle sue Considerazioni finali il Governatore della Banca d’Italia abbia centrato il punto chiave.

A che cosa si riferisce?

Panetta, parlando della governance economica europea, ha evidenziato che “in mancanza di avanzamenti verso una politica di bilancio comune, qualunque riforma che intervenga solo sulle politiche nazionali rischia di fare apparire le regole europee sbilanciate verso il rigore e poco attente alle esigenze dello sviluppo”. È chiaro il riferimento alle nuove regole del Patto di stabilità e crescita. Si tratta di una certificazione, nemmeno troppo diplomatica, del fatto che quello che è stato approvato sinora, come costruzione fiscale, non è altro che un insieme di regole austere.

Macron e Scholz spiegano che l’Europa è “a un punto di svolta” e non escludono che si arrivi a un bilancio comune europeo dotato di risorse proprie, magari tramite gli eurobond. Cosa ne pensa?

La proposta è piuttosto vaga. Mentre c’è stata molta attenzione ad articolare le tante regole austere della riforma del Patto di stabilità, questa precisione non si vede quando si tratta di immaginare un bilancio comune europeo. Al di là di questo, però, il punto chiave è che non c’è tempo per aspettare che sia pronta un’architettura fiscale europea federale simile a quella statunitense: mancano la solidarietà e la fratellanza, oltre che dei passaggi politici che potrebbero richiedere ben più di una legislatura.

Cosa si potrebbe fare nel frattempo? Come hanno scritto Macron e Scholz, “la nostra Europa è mortale”, dunque occorre agire in fretta.

L’Italia offre, a mio avviso, un’importante lezione. Se guardiamo all’inizio dello scorso decennio, quando i deficit sono stati ridotti drasticamente come richiesto dall’austerità, il nostro debito su Pil è salito di 30 punti percentuali. Nel brevissimo triennio post-pandemico, invece, quando per la prima volta l’Europa ha lasciato che i deficit salissero per aiutare l’economia, siamo cresciuti più degli altri Paesi europei e il rapporto debito/Pil è sensibilmente diminuito. Occorre, però, fare qualcosa di meglio degli ecobonus. che hanno mostrato solo una parte, e non la migliore, del potenziale che hanno le politiche fiscali espansive.

Cosa occorre fare allora?

Servono investimenti chiave, lo vediamo anche adesso che nel 2024, nonostante il Pnrr, cresciamo in linea con la media dell’Ue. Com’è emerso anche dalle Considerazioni finali di Panetta, non abbiamo una Pubblica amministrazione al passo con le esigenze di sviluppo: ha il più basso numero di dipendenti in rapporto alla popolazione di tutti i principali Paesi dell’Eurozona, per di più con un’età media molto avanzata e con scarsa formazione di tipo tecnico. La mancanza di investimenti pubblici nella Pa, scuola e università comprese, dettata dall’austerità ha generato un’occupazione fragile e con bassi salari. Come può la produttività aumentare in queste condizioni? L’austerità europea che sta per tornare previene gli investimenti chiave che servono all’Italia.

Dunque, bisognerebbe che l’Ue consentisse di fare più deficit per investimenti pubblici?

Abbiamo bisogno di politiche fiscali autonome a livello nazionale, che siano, però, chiaramente monitorate per far sì che venga sostenuta la forza di un singolo Paese per il tramite di investimenti pubblici necessari, come quelli in capitale umano. In Italia, per esempio, assumendo giovani laureati ben retribuiti nella Pa e facendo investimenti che permettano alle imprese di creare un’occupazione non temporanea, fragile, a basso salario, ma ad alta produttività che possa dare un contributo importante e duraturo al Pil, in modo che si abbatta il rapporto debito/Pil.

Fino a che punto la Commissione europea dovrebbe mettere il naso su come viene utilizzato il maggior deficit nei singoli Paesi?

Detto che il naso ce lo deve mettere, e non chiudere gli occhi come accaduto nel caso del Superbonus, devo dire che in questo senso il Pnrr offre un ottimo esempio: l’Europa continua a essere estremamente pignola sul raggiungimento di certi obiettivi e delle milestone. Quindi, se si consente all’Italia di spendere più in istruzione o in sanità, la Commissione può mettersi al servizio e non in antagonismo con il Paese controllando che le risorse vengano effettivamente utilizzate in quei settori e per raggiungere miglioramenti qualitativi tangibili e misurabili.

Quanto deficit bisognerebbe consentire a livello nazionale?

Servono risorse superiori a quelle rese disponibili dal Pnrr: poco più di 200 miliardi di euro in sette anni sono noccioline. Abbiamo bisogno di un deficit intorno al 5% del Pil all’anno, circa 100 miliardi, fino a quando non riprenderemo a crescere in modo stabile. Ripeto, però, che le risorse disponibili vanno spese bene per poter abbattere strutturalmente il rapporto debito/Pil.

Rispetto allo status quo attuale si tratterebbe, quindi, di introdurre una sorta di golden rule nelle regole del Patto di stabilità per alcuni investimenti pubblici, sottoposti, come ha spiegato poc’anzi, a un monitoraggio da parte della Commissione…

La proposta di una golden rule è già stata bocciata anche per via della timidezza italiana. Ci si può riprovare alla luce dei risultati delle elezioni europee che, sperabilmente, permetteranno una crescita della visione di leadership, rendendo evidente alle classi dirigenti europee la necessità di mettere in campo politiche fiscali responsabili per tenere insieme la collettività guardando ai bisogni dei più deboli.

(Lorenzo Torrisi)

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