La crisi di identità in cui si dibatte l’Unione Europea è ormai evidente e si dimostrano sempre più inutili i tentativi di addossarne la responsabilità ai governi che vengono, di volta in volta, strumentalmente definiti “sovranisti”. Una sorta di anatema, pedissequamente riproposto da molti media, con il quale si è cercato di imporre ai governi non allineati il rispetto di quanto deciso dall’euroburocrazia esecutrice dei voleri dei Paesi che contano. Si spiega così l’ostentato ottimismo del governo “giallo-rosso”, presentatosi come europeista contro il precedente “giallo-verde” sovranista. A giudicare dai sondaggi, per non parlare delle ultime elezioni regionali, gli elettori italiani non si sono lasciati illudere dal ribaltone di M5s e Pd.
Quanto a Bruxelles, sembra che qui si debbano fronteggiare problemi più seri delle nostrane sbruffonate grilline o renziane, con contorno di sardine, a cominciare dalla Brexit. La determinazione con la quale Boris Johnson sta portando avanti l’uscita del Regno Unito sembra aver preso di sorpresa i vertici Ue, adagiati sulle lunghe e inconcludenti trattative dell’era di Theresa May. Sembra svanita la sicumera con cui i rappresentanti dell’Ue pensavano di poter trattare con Londra e sono lontani i tempi in cui un presidente americano si permetteva di interferire pesantemente nell’incombente referendum sulla Brexit. Obama non è più presidente e Boris Johnson, l’allora sindaco di Londra che lo zittì dandogli dell’ex coloniale, è ora primo ministro. Per di più, sulla base di una schiacciante maggioranza ottenuta con una posizione “leave” estrema.
La situazione appare quindi chiara per il Regno Unito, anche se permangono problemi spinosi, come la situazione della Scozia e dell’Irlanda del Nord. Il problema scozzese sarà probabilmente risolto con ulteriori concessioni, ma difficilmente troverà una sponda nell’Ue. Sponda che invece sarà necessaria per la questione irlandese, ma occorrerà attendere la formazione del nuovo governo dopo le recenti, e non semplici, elezioni. Comunque, “Remainers” e “Brexiteers” si confrontano ormai non più sull’uscire o meno, ma solo sulle condizioni con cui lasciare l’Unione europea.
L’Ue, invece, deve mettere a confronto gli interessi di 27 Paesi, non coincidenti neppure sulle condizioni da offrire a Londra, dati i differenti rapporti, economici e non solo, che intercorrono con il Regno Unito. La dipartita dell’Uk ha però anche conseguenze dirette sui rapporti interni all’Ue, come dimostrano le recenti difficili discussioni sul prossimo budget comunitario. L’uscita del Regno Unito, contributore netto nell’Ue, lascia infatti un buco stimato in una decina di miliardi nelle entrate dell’Unione: non una grande cifra, ma il “buco” aggrava le richieste di alcuni Paesi per una riduzione del bilancio comunitario. Per inciso, nel 2018 l’Italia era il quarto contributore netto, dopo Germania, Francia e Regno Unito.
Il risultato è che al recente Consiglio europeo non è stato possibile raggiungere un accordo sul bilancio dei prossimi sette anni, rinviando il tutto a un prossimo incontro da fissarsi. Le posizioni sono molto distanti tra i Paesi che vorrebbero più austerity di bilancio (Germania, Olanda, Austria, Svezia e Danimarca) e quelli che vorrebbero mantenere un livello alto di sovvenzioni, come soprattutto il cosiddetto Gruppo di Visegrád (Polonia, Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca).
Altro punto di contesa è la questione degli “sconti” nei contributi riconosciuti dagli anni 80 proprio ai Paesi cosiddetti “frugali”, che ora gli altri, Italia compresa, vorrebbero eliminare o quantomeno ridurre. La Francia, inoltre, si oppone alla riduzione dei contributi all’agricoltura, rilevanti da sempre e particolarmente nell’attuale situazione di contestazione a Macron. In vista dei prossimi negoziati sulla Brexit, queste divisioni rappresentano un sostanziale regalo all’Uk.
La Brexit pone in rilievo un altro punto cruciale dell’Ue: la ineliminabile competizione di fondo tra Germania e Francia, al di là dei proclami sul “patto di Aquisgrana”. Dopo l’uscita dell’Uk, la Francia è la maggiore potenza militare dell’Unione e l’unica con armi nucleari e una posizione reale di potenza (ex) coloniale, in Africa e Medio Oriente. Una posizione che il neogollista Macron sembra ben deciso ad affermare di fronte alla Germania, più debole su tutti questi fronti e ora anch’essa in difficoltà sul fronte economico e su quello della stabilità politica interna.
In questo scenario, l’Italia, terzo Paese per importanza nell’Ue a 27, potrebbe giocare un ruolo del tutto determinante, ago della bilancia tra i due contendenti e portatore di interessi generali diversi, ma non meno rilevanti, di quelli dei Paesi del Nord. Occorrerebbe, però, avere una classe politica in grado di assolvere al compito, come l’Italia ebbe in passato, nonostante i gravi errori anche allora commessi.