Cinque anni fa le nomine Ue ebbero fra i loro obiettivi ed esiti il ribaltone italiano: l’espulsione della Lega dalla maggioranza di governo a Roma, con la nascita di un governo fra M5s e Pd. Il rimpasto post-elettorale a Bruxelles fu lo strumento di contrasto e punizione di una forza politica nazionale che si era nettamente affermata all’euro-voto, quasi raddoppiando in un anno il successo nelle elezioni nazionali. Il partito vincente fu dunque ricacciato dall’Europa all’opposizione nel suo Paese attraverso un’operazione convergente di Germania e Francia, dell’eurocrazia di Bruxelles e dei tre partiti del legittimismo europeista a Strasburgo (popolari, socialdemocratici e liberali, tutti usciti dalle urne più o meno indeboliti). Il presidente della Repubblica, il dem Sergio Mattarella, fu parte non laterale nel ribaltone italiano, giocando di sponda con l’Europa e consolidando la prassi semipresidenzialista di fatto inaugurata dal predecessore Giorgio Napolitano nel 2011.
A Palazzo Chigi si insediò un governo sostenuto da due partiti entrambi perdenti: il M5s, uscito dimezzato in un anno dal voto europeo; e il Pd, dimezzato già nel 2018 rispetto alle europee 2014. Il Conte 2 non ha retto fino a fine legislatura: e dopo l’ennesimo governo tecnico di Mario Draghi, M5s e Pd sono usciti pesantemente sconfitti anche dal voto 2022. Due anni fa in Italia si è affermato un partito di destra come FdI e la Lega – pur penalizzata per quattro anni dall’ostracismo europeo – è tornata in una maggioranza di governo nuovamente fedele alla mappa parlamentare disegnata dalla democrazia elettorale. Questa Italia e questa maggioranza si stanno ritrovando ora a fare i conti con un nuovo ribaltone: di scala europea, ma non troppo diverso – nella sua dinamica – da quello che fu imposto dalla Ue all’Italia nel 2019.
L’altra sera a Bruxelles la conferma di Ursula von der Leyen come presidente della Commissione è avvenuta su pesante forzatura di due grandi, doppi perdenti: Olaf Scholz (cancelliere tedesco e leader virtuale della socialdemocrazia europea) ed Emmanuel Macron (presidente francese e riferimento ultimo dei liberali europei). Entrambi hanno subìto spaventose débâcle elettorali, in casa e in Europa: tanto che l’Eliseo ha indetto subito elezioni anticipate che – nella migliore delle ipotesi – segneranno la fine della leadership piena di Macron. Ma anche in Germania la coalizione rossoverde è uscita bocciata in casa dal voto europeo e appare in bilico già di fronte alla scadenza immediata della manovra 2025. Tutti, a Berlino, danno intanto per certo il ritorno al governo di Cdu-Csu alle prossime elezioni politiche, fra un anno.
Non ha sorpreso che, in questo quadro, due leader forse irrimediabilmente azzoppati abbiano imposto un ritmo forsennato e anomalo alla definizione dei “top jobs” Ue (nel 2019 il Consiglio Ue si riunì solo cinque settimane dopo il voto). Lo hanno fatto strumentalizzando il ridisegno della governance europea ai fini della loro sopravvivenza personale al potere in patria, contro il responso elettorale: che invece ha dato ulteriore stabilità alla maggioranza di governo in Italia e ulteriore forza in Europa a Ecr (il partito conservatore che ha in Giorgia Meloni il suo pivot).
Sono stati Macron e Scholz a manipolare il processo a senso unico: per dividere programmaticamente l’Unione (fra Paesi e fra forze politiche) e porre costantemente il nemico dichiarato – l’Italia del centrodestra – di fronte a fatti compiuti non accettabili per Meloni (solo tardivamente appoggiata da Mattarella e nell’ennesimo silenzio-su-tutto del Pd di Elly Schlein).
Sono apparsi gravi, in particolare, tre passaggi.
Il primo è stato il commissariamento anticipato (in gergo mafioso si direbbe “mascariamento”) di von der Leyen: che aveva tutte le carte in regola per essere una leader “di tutti” in Europa, in quanto eletta come candidata di punta del Ppe, partito vincente (confermatosi primo) in Europa e in Germania. Invece a Ursula è stato imposto a forza l’abito stretto e ultradivisivo di esecutrice gregaria di Francia e Germania (anzi: di Macron e Scholz, leader perdenti e divisivi nei loro Paesi). E von der Leyen – che già nel 2019 era partita debole per l’astensione tedesca di Angela Merkel imposta da Scholz – cinque anni dopo ha visto stroncato sul nascere il suo ambizioso tentativo politico di aprire la coalizione a Giorgia Meloni per dare alla Ue 2024-29 una base più ampia e solida in vista di scelte strategiche di estremo impegno.
Ora, d’altronde, “Ursula” dovrà affrontare il voto di fiducia all’europarlamento: dove la coalizione ristretta a tre – con l’esclusione anche dei Verdi – può contare su numeri nominali risicati. Soprattutto quando né Scholz né Macron possono vantare un controllo reale sui gruppi parlamentari a Strasburgo. Eppure – ed è questa una seconda anomalia – alla vigilia del Consiglio Ue si sono arrogati loro l’annuncio semiclandestino che socialdemocratici, popolari e liberali avevano unilateralmente confermato “Ursula 2”.
A maggior ragione il rischio-fiducia pare reale per la presidente ri-designata quando, nell’immediato dopo-voto e ancor prima dell’insediamento formale dell’europarlamento, numerosi neo-deputati hanno già cambiato casacca (tanto che i liberali macroniani di Renew sono già scivolati al quarto posto dietro Ecr capitanata da FdI). E von der Leyen per prima non può non ricordare di aver ottenuto nel 2019 una fiducia difficilissima, colpita a Strasburgo da decine di franchi tiratori (soprattutto socialdemocratici). Fu salvata anche dai voti preziosi dei grillini italiani: merce di scambio offerta dal premier Giuseppe Conte, che aveva votato von der Leyen in Consiglio Ue per ritrovarsi poche settimane dopo primo beneficiario del ribaltone italiano.
Per questo nel 2024 una bocciatura di “Ursula” a Strasburgo non è solo un’ipotesi teorica. Per quanto clamorosa, sarebbe probabilmente non sgradita a Scholz (che vedrebbe indebolito in Europa il fronte democristiano tedesco) e forse neppure a Macron, per il quale la conferma in corsa di von der Leyen è strategica nel brevissimo termine, come feticcio elettorale “anti-destre” nella decina di giorni a cavallo dei due turni elettorali in Francia.
Il “no” italiano ad Antonio Costa come presidente del Consiglio Ue appare dal canto suo la risposta a una sostanziale provocazione accessoria a Meloni. Il “contentino” dato ai socialdemocratici (nel 2019 fu l’assegnazione della presidenza dell’europarlamento al “dem” italiano David Sassoli) ha avuto un sapore particolarmente sgradevole. Costa ha infatti dovuto lasciare la guida del governo portoghese lo scorso novembre per una controversa ipotesi di corruzione, che – fu accertato poi – avrebbe invece riguardato il ministro dell’economia, quasi omonimo del premier. Quest’ultimo, tuttavia, si dimise seduta stante, senza condurre un’effettiva reale autodifesa, alla pubblicazione di alcune intercettazioni. E si ritrova oggi promosso ai vertici Ue, quando non si è ancora abbassata del tutto la polvere del Qatargate sui socialdemocratici in Europa. Da marzo in ogni caso, dopo elezioni anticipate, il Portogallo è governato da una coalizione di centrodestra.
Nel frattempo il “cugino” iberico di Costa – il premier socialista spagnolo Pedro Sánchez – l’altra sera non si è neppure presentato a Bruxelles: delegando – con un passo estremamente discutibile sul piano istituzionale – il voto della Spagna al cancelliere socialdemocratico tedesco. Cos’ha impedito a Sánchez di volare da Madrid a Bruxelles per qualche ora nel Consiglio Ue più importante dell’anno? O di inviare un vicepremier? Ufficialmente la motivazione è stata fatta risalire alla morte del suocero. Una questione, però, non del tutto privata, anzi: la moglie di Sánchez è finita recentemente sotto inchiesta per presunti fatti corruttivi. E questo dopo che Sanchez ha calpestato la magistratura concedendo l’amnistia ai golpisti-separatisti catalani in fuga all’estero dal 2017, preziosissimi tuttavia per “ribaltare” la sconfitta elettorale di Sánchez un anno fa contro il Partido Popular.
Il volto dell’Europa “europeista” di oggi è questo. E il nuovo esecutivo Ue sembra nascere con tutte le sembianze di un “governo in esilio”: di un bunker di leader nazionali, forze politiche e tecnocrati battuti dal giudizio degli elettori, ma intenzionati a “resistere-resistere-resistere” come centro di potere proprio, manipolando organi e poteri di Bruxelles per ricattare e neutralizzare interi Paesi e forze politiche “non allineati”. E la Francia – assai più dell’Italia – appare la potenziale incubatrice di una “guerra civile” in cui un presidente dimezzato si allea con la tecnostruttura Ue (nominata da lui all’ultimo istante) per sabotare l’azione di governo di una nuova maggioranza uscita dal voto democratico.
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