Sempre più spesso torniamo a sentire parlare dell’Unione Europea in maniera assai discordante. La domanda più frequente è sempre la stessa: l’Europa è madre o matrigna?
Durante la crisi economico-finanziaria iniziata nel 2007 negli Stati Uniti e propagatasi negli anni a seguire in Europa, dove ha raggiunto il suo culmine con la crisi del debito sovrano greco, sembrava che nessuno avesse più dubbi: l’Europa era una matrigna “cattiva” che aveva imposto delle condizionalità rigorosissime alla Grecia costringendola ad adottare le famose misure di austerità, imponendole tagli pesantissimi alla spesa pubblica che hanno comportato la distruzione dello Stato sociale in quel Paese. La drastica riduzione delle pensioni, degli stipendi dei pubblici dipendenti, della sanità, e così via sono solo alcune delle dure misure di aggiustamento macroeconomico cui essa ha dovuto sottostare che sono costate lacrime e sangue ai cittadini greci e che non hanno portato ai risultati positivi che ci si aspettava, tanto è vero che il debito pubblico greco continua ad essere il più alto degli Stati membri dell’Ue e le sue difficoltà non sono state affatto risolte.
Ciò che è accaduto in Grecia lo sappiamo tutti e nonostante la fine ufficiale del programma di sorveglianza rafforzata cui è stata sottoposta la Repubblica ellenica per ben 12 anni nulla potrà cancellare quanti danni l’Europa e la Troika hanno fatto a quel Paese.
Un salvataggio, quello greco, che non fu affatto accordato in virtù di un qualche spirito solidaristico nei confronti dei cittadini ellenici, bensì per salvaguardare l’euro, preservando la stabilità finanziaria dell’Eurozona nel suo complesso e la solvibilità della Grecia stessa, il cui eventuale default avrebbe rappresentato un danno ingentissimo soprattutto per le banche tedesche e francesi e, quindi, per i debiti pubblici di quegli Stati, le cui casse erano piene di titoli del debito pubblico greco.
Oggi le opinioni si sono nuovamente divise, anzi, di frequente si sente dire che l’Europa non è più quella dei tempi dell’austerity, ma è profondamente cambiata, che è diventata una “madre benevola” per via dell’approvazione del programma Next Generation Eu, il famoso Recovery fund come è più comunemente conosciuto, grazie al quale la stessa Europa in un qualche modo avrebbe supportato le gravissime difficoltà economiche in cui gli Stati membri sono piombati a seguito della pandemia da Covid-19.
Io però non credo sia davvero così.
Quando il giurista denuncia l’inaccettabilità delle rigorose condizionalità cui sono subordinate le erogazioni finanziarie del Recovery fund (ma anche del Mes e di altri organismi finanziari internazionali come il Fmi) o, da ultimo, quelle del nuovo strumento adottato dalla Bce, il cosiddetto scudo anti-spread (Tpi), per “calmierare” lo spread degli Stati membri in questo difficile momento di deflazione in cui essi sono sprofondati per via della pandemia e aggravatosi a causa della guerra tra Russia e Ucraina, l’obiezione più comune che gli viene mossa consiste nel sottolineare che è del tutto naturale che se un qualunque soggetto eroga un prestito prima di farlo si accerti di sottoporre il ricevente a delle condizioni cui sottostare per garantirne la restituzione.
Il punto è che ci siamo abituati a parlare di condizioni e condizionalità come se fossero sinonimi, ma non è affatto così.
È ovvio, persino banale, infatti, l’obiezione, spesso avanzata dai sostenitori dell’Europa “a tutti i costi”, che chiunque contragga un prestito deve sottostare alle condizioni che gli impone il soggetto erogante: se io sono una banca ed erogo un prestito, pongo delle condizioni affinché il mio debitore mi restituisca i soldi.
Faccio l’esempio più semplice: quando si accende un mutuo in banca si sottoscrive un contratto con il quale una parte consegna all’altra una determinata quantità di danaro e l’altra si obbliga a restituire altrettante cose della stessa specie e qualità. Il mutuo, salva diversa volontà delle parti, si presume oneroso perché “il mutuatario deve corrispondere gli interessi al mutuante”, così dispone il codice civile. Aggiungerei almeno gli interessi, perché il contratto di mutuo, come la maggior parte dei contratti bancari, può ben stabilire anche altre condizioni economiche, come previsto dal Testo unico bancario. A ciò si aggiunga che, ovviamente, colui che eroga il prestito effettuerà tutta una serie di verifiche sulla solvibilità del mutuatario e sulla sua possibilità di offrire adeguate garanzie.
Si tratta, come è evidente, di condizioni che il creditore deve accettare per forza: se voglio comprare la casa o l’automobile, vado in banca, accendo un mutuo e accetto tutte le condizioni che essa mi pone, senza se e senza ma.
Oggi i supporters dell’Unione Europea continuano a ripeterci che le condizionalità cui sono soggette le erogazioni finanziarie dell’Ue non sono altro che l’ovvia conseguenza dei prestiti e delle sovvenzioni che l’Europa sta facendo agli Stati membri per riprendersi dalle loro gravi difficoltà economico-finanziarie post-pandemiche e belliche che sono assimilabili in tutto e per tutto a quelle cui il singolo cittadino deve sottostare quando chiede un mutuo alla sua banca per acquistare la casa o l’automobile.
Ma non è affatto così. Come ho detto, è importante capire che condizioni e condizionalità non sono sinonimi, sono due cose molto diverse: le condizionalità non possono essere considerate delle mere condizioni, ma sono altro, sono molto più pervasive delle condizioni ed è proprio questo il punctum dolens. Tra condizionalità e condizioni non vi è equivalenza, i due termini non sono fungibili né sovrapponibili. Non lo dico io, lo dice l’Accademia della Crusca e forse gli europeisti oltranzisti dovrebbero essere più sinceri su questo punto che è davvero cruciale.
Le condizioni sono accettabili, le condizionalità molto meno.
Questo perché attraverso le condizionalità l’Europa entra a gamba tesa sulle decisioni politiche che spettano, dovrebbero spettare, esclusivamente ai governi e ai parlamenti nazionali in virtù della funzione di indirizzo politico di cui solo essi sono titolari.
Quando l’Ue impone all’Italia di cambiare il proprio sistema giudiziario, di riformare il mercato del lavoro, di portare a termine la riforma pensionistica, di aggiornare i valori catastali e così via prescrive al nostro Paese un vincolo, il famoso vincolo esterno, nella sua accezione più negativa, in quanto rappresenta una coercizione ad attuare i dettami sovranazionali e internazionali in cambio di aiuti finanziari.
E non lo fa di certo per spirito solidaristico, tutt’affatto, perché questi denari l’Europa li dà agli Stati membri in difficoltà solo perché se non lo facesse, quasi certamente, essi andrebbero in default, facendo saltare l’Unione economica e monetaria, l’euro, insomma tutta la costruzione europea che si continua a fondare sul mercato unico e la libera concorrenza.
Oltre tutto attraverso le condizionalità l’Europa impone agli Stati membri le proprie politiche anche in materie che non sono di sua competenza, espandendo oltre i limiti del consentito la propria pervasività, questo va detto con molta chiarezza.
È qui che entra in gioco la teoria del vincolo esterno, priva di quell’accezione benevola che gli si è talvolta attribuita. Vincolo esterno vuol dire consentire scientemente alla burocrazia economica e finanziaria delle istituzioni europee e internazionali, tecnocratiche e gravemente carenti dal punto di vista della democraticità e rappresentatività, di “entrare” nel cuore nostro ordinamento giuridico e dettare le regole, imporre alla politica il da farsi, stabilire le riforme strutturali da porre in essere, determinare unilateralmente in cosa consista il bene del nostro Paese.
La soluzione, a mio avviso, deve essere drastica. Noi dobbiamo decidere una volta per tutte cosa vogliamo fare di questa Europa e se vogliamo continuare su questa strada.
È chiaro che nel mondo di oggi uno Stato singolo che si volesse tirare fuori dall’Ue sarebbe estremamente debole e, soprattutto, destinato all’isolamento.
L’Italia, per entrare nel merito, non è la Gran Bretagna, non ha un passato imperiale, non è a capo del Commonwealth. Pensare che l’Italia possa uscire dall’Ue è follia pura.
Non solo per il sogno europeo che sarebbe definitivamente infranto, ma per motivi molto meno nobili di opportunismo. Però per cambiare le cose non è sufficiente aggirare le regole dei Trattati sull’unanimità e modificare i Regolamenti europei per renderli più potabili.
Questo, a mio avviso, è un artifizio giuridico che lascia il tempo che trova.
Io penso che si dovrebbe votare per eleggere un’Assemblea costituente europea con il compito di redigere una vera Costituzione europea. Non basta cambiare i Trattati con il cosiddetto metodo Convenzione, come fu fatto anni fa. Quel metodo, ampiamente gestito dai governi degli Stati membri, ha fallito miseramente e l’Unione non può più permettersi fallimenti.
Per questo parlo di Costituente e Costituzione, perché è l’unico modo democratico per cambiare realmente le cose.
Mi rendo perfettamente conto che non tutti gli Stati membri sono pronti a fare questo importantissimo passo, ma se ciò non accadrà la disaffezione dei cittadini verso le istituzioni europee diventerà ingestibile oltre al fatto che l’Europa si troverà senza gli strumenti adeguati per pesare sul panorama internazionale anzi, peggio, sarà compressa tra i due maggiori players mondiali, l’America e la Cina, senza alcuna possibilità di avere il ruolo che dovrebbe spettarle grazie al suo essere terra di cultura e culla della democrazia.
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