Quasi più eloquente delle stime del Fondo monetario internazionale (di cui molto si è parlato la settimana scorsa) è il Purchasing Managers Index, Pmi (l’indice di quello che programmano i manager preposti agli acquisti). Si basa su indagini condotte mensilmente su un gruppo di aziende accuratamente selezionate che rappresentano le principali economie mondiali nonché quelle in via di sviluppo.



Il Pmi fornisce in anticipo indicazioni di quanto sta realmente accadendo nei principali settori economici, monitorando i cambiamenti di variabili come produzione, nuovi ordini, livelli occupazionali e prezzi. Il Pmi (e i suoi indicatori settoriali) fornisce una visione abbastanza precisa delle condizioni economiche del manifatturiero, del terziario e dell’edilizia. I dati Pmi dei rispettivi settori nazionali si basano sulle risposte date dai responsabili agli acquisti (o figure similari) delle oltre 400 aziende facenti parte delle singole indagini.



Le aziende che partecipano all’indagine vengono scelte accuratamente per rappresentare la struttura reale del Paese e del settore. Agli intervistati viene chiesto di paragonare le condizioni di un certo numero di variabili rispetto al mese precedente, stabilendo se queste sono migliorate, peggiorate o sono rimaste invariate. Agli intervistati viene anche data la possibilità di fornire la causa che ha provocato il cambiamento, fornendo quindi una visione più completa della tendenza.

Se ne parla poco sulla stampa anche economica perché per interpretare l’indice occorrono conoscenze statistiche specifiche. Venerdì scorso è stato pubblicato il Pmi dell’area dell’euro: indica che la crescita sarà più lenta quest’anno di quanto previsto in precedenza, mentre il tasso di inflazione aumenterà ulteriormente. 



I dati Pmi pubblicati un mese fa (ossia a fine marzo) sono stati migliori del previsto, grazie a un rimbalzo dell’attività economica dopo la revoca delle restrizioni Covid-19. Ma in aprile, l’indice mostra a tutto tondo l’impatto della guerra. Il conflitto in Ucraina sta portando il prezzo dell’energia a livelli record, esacerbando i problemi causati dalle interruzioni della catena di approvvigionamento che hanno afflitto l’Europa durante la pandemia.

All’inizio della settimana scorsa il Fmi ha pubblicato le proprie previsioni in cui si rivedono al ribasso le stime di crescita della zona euro nel 2022 dal 3,9% al 2,8%. Germania e Italia sono particolarmente colpite dagli effetti economici del conflitto: le precedenti previsioni Fmi, entrambe del 3,8%, sono state ridotte rispettivamente al 2,1% e al 2,3%.

Quindi, dopo la recessione da una pandemia che pare assopita ma non ancora terminata, si annuncia un rallentamento marcato della ripresa. Non ha le caratteristiche di una nuova recessione ma a esso si accompagna una vampata d’inflazione (che potrebbe essere di breve periodo) di cui non si conoscono bene le caratteristiche. Occorre ammettere che, tutto sommato, il Documento di economia e finanza appena varato dall’Italia tiene abbastanza in conto questo quadro per i prossimi due anni, anche se si è in una nube d’incertezza soprattutto per quanto riguarda la guerra scatenata dell’aggressione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa, la sua possibile durata, i suoi danni e il costo (e finanziamento) della ricostruzione.

In questo contesto occorre chiedersi dove va l’Eurozona. Una settimana fa, su questa testata, abbiamo segnalato come, almeno per il momento, in termini di politica monetaria, la Banca centrale europea si pone in posizione asimmetrica rispetto alla Federal Reserve americana. L’unione monetaria mantiene una politica della moneta “accomodante”, anche se ha annunciato che entro l’autunno cesserà le misure “non convenzionali”. Alla luce del Purchasing Managers Index di venerdì scorso, questa strategia sembra ragionevole: se i manager responsabili degli acquisti vedono grigio scuro, restrizioni monetarie come il Quantitative Tightening (QT) potrebbero indurli a vedere buio pesto. 

Negli Stati Uniti, il Fmi ha ritoccato al ribasso le stime di crescita, che restano però al 4% soprattutto grazie alla forte espansione del manifatturiero, mentre preoccupa l’inflazione che viaggia attorno all’8% su base annua. In un mercato dei capitali “atlantico” sostanzialmente abbastanza integrato (almeno per quanto attiene all’obbligazionario) occorre, però, chiedersi sino a quando le politiche della moneta potranno continuare a essere asimmetriche.

Più complesso il quadro delle politiche di bilancio. Molto probabilmente, la guerra sarà un incentivo per mantenere “la sospensione” delle regole per la vigilanza dell’unione monetaria delle politiche di bilancio (i parametri di Maastricht sui rapporti tra indebitamento delle pubbliche amministrazioni e stock di debito e Pil) sino al 2023. C’è il rischio che ciò voglia dire “liberi tutti”di spendere e spandere, soprattutto in prossimità di elezioni.

Lo si è visto in Francia, dove i due canditati alle presidenziali hanno proposto programmi di aumento della spesa pubblica. In Francia la spesa delle pubbliche amministrazioni è al 56,4% del Pil, rispetto ad esempio al 55,9% della Finlandia e al 46,2% della Danimarca, due Paesi caratterizzati da “Stati sociali” noti per la loro efficienza. Non si pensa di finanziare tale aumento con il fisco: in Francia il gettito è pari al 48,4% del Pil (rispetto al 47, 2% della Finlandia, al 46,2% della Danimarca e al 42%in Italia). Quindi, l’idea è di farlo a debito, che negli ultimi cinque anni Oltralpe è passato dal 97% al 116,4% del Pil.

In Italia, il debito della Pubblica amministrazione è pari al 150,4% del Pil, ci sono già, in vista delle elezioni del 2023, fibrillazioni per aumenti della spesa e del debito da fare accollare a qualche fantomatica agenzia europea (da creare… ove gli altri partner siano d’accordo).

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