Ci sono parole che possono avere un peso economico più importante di misure e provvedimenti adottati dai Governi. Sul Financial Times di domenica scorsa sono infatti apparse delle dichiarazioni apparentemente positive del vicepresidente della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, che ha escluso il ritorno all’applicazione delle regole del Patto di stabilità e crescita nel 2021 “perché la crisi continua, l’incertezza continua”. Il giorno dopo, in un’intervista pubblicata sul Corriere della Sera, il commissario agli Affari economici, Paolo Gentiloni, è stato più esplicito nel dire che le regole potrebbero essere riapplicate quando il Pil medio dell’Ue tornerà ai livelli di fine 2019. Per Gustavo Piga, professore di Economia politica all’Università Tor Vergata di Roma, non solo le dichiarazioni dei due esponenti di Bruxelles sono poco rassicuranti, ma non va sprecata «l’immensa occasione di non tornare alle regole di prima, anche perché formalmente parte di esse non ha più alcun valore».



In che senso non ha più valore?

Ricordiamoci che il Fiscal compact, che è un accordo intergovernativo del 2012, doveva essere “provato” per 5 anni prima di poter essere eventualmente integrato all’interno dei Trattati. Il Parlamento europeo, passati quei cinque anni, l’ha valutato negativamente e il Consiglio europeo continua a far finta di niente non decidendo nulla e non pronunciandosi al riguardo. Quindi formalmente il Fiscal compact non fa parte dei Trattati e vi sono tutte le motivazioni per non ritornare definitivamente ad applicare le sue regole.



Per il momento sembra essere escluso un ritorno alle regole del Patto di stabilità e crescita nel 2021.

Questo è un ovvio riconoscimento del fatto che i deficit servono in momenti di difficoltà. Era politicamente impossibile, anche per i falchi più austeri, pensare a un ritorno l’anno prossimo alla convergenza verso il bilancio in pareggio. A mio modo di vedere la questione chiave è capire qual è l’effetto di discutere oggi se tornare nel 2022 a queste regole.

E qual è questo effetto?

Dombrovskis è stato chiarissimo, dicendo che la Commissione non cercherà di riattivare le regole perché la crisi continua, come l’incertezza. Si tratta di un buon inizio di ragionamento che però va concluso in maniera lineare, arrivando a capire che la crisi continua perché l’incertezza continua. L’incertezza rappresenta il principale freno agli investimenti. Nessun imprenditore che si rispetti fa investimenti in condizioni di incertezza. Un’incertezza che non riguarda il Covid.



E cosa riguarda allora?

Siccome gli imprenditori ragionano a cinque anni e non pensano che il Covid resterà così a lungo, l’incertezza che incombe su di loro è legata alla questione chiave se nei prossimi cinque anni queste regole sadomasochistiche europee saranno riattivate.

Può essere più chiaro?

Facendo un rapido calcolo, se fossi un imprenditore portato a pensare che nel 2022 si tornerà con tutta probabilità alle vecchie regole, avrei solo il 20% degli investimenti del prossimo quinquennio (solo il 2021) libero da maggiori tasse e minore domanda nell’economia da parte dello Stato in un momento di grandissima difficoltà. Questo perché il ritorno alle regole del Patto di stabilità si tradurrebbe in maggiori tasse e minore spesa pubblica per riportare il deficit/Pil al 3%, con l’illusione che ciò possa far diminuire il rapporto debito/Pil, che invece aumenterà visto che il denominatore crollerà. Questo vuol dire che l’incertezza non è esogena, e non è assolutamente e semplicemente legata al Covid, ma ha a che fare con l’esistenza o meno di queste regole durante tempi di crisi gravi.

Non si può però pensare che deficit e debito restino così alti.

Ancora non si riesce a capire che i conti pubblici vanno aggiustati quando lo scenario è solidamente prospero. Quando lo scenario è incerto, l’unica certezza che va data sta nel dire senza se e senza ma, come fece Roosevelt, che finché le cose non andranno bene lo Stato sarà accanto alle imprese. Questo la Commissione europea non lo sta dicendo, a differenza di quanto accade nel resto del mondo, dove non esistono regoli così folli che agiscono sulle aspettative di lungo periodo degli operatori economici in maniera negativa. Le dichiarazioni di Dombrovskis, che sembrano positive, indicano la necessità di un dibattito che deve partire non dalla Commissione europea, ma dai Paesi membri cui spetta la decisione politica sulla riattivazione delle regole.

Bisogna garantire un quinquennio senza il ritorno a queste regole oppure dare già la certezza che non ci saranno più?

Dobbiamo avere delle regole europee che sappiano dire che in tempi di crisi gli Stati verranno a supporto delle economie private. Abbiamo bisogno di un trattato che non generi crisi perché non sa dire che cosa si farà durante una crisi. In Europa non si capisce qual è la regola che deve prevalere nel momento di difficoltà economica e questo è gravissimo perché accende la crisi stessa. È come pensare di fare un viaggio rischioso senza alcun tipo di assicurazione. È chiaro che quel viaggio non verrà fatto.

Ma non ci sono già delle regole europee per gestire i periodi di crisi?

Le regole sul deficit strutturale hanno fallito miseramente, sia perché sono incomprensibili tecnicamente a qualsiasi imprenditore, sia perché si sono mostrate assolutamente insufficienti quanto a dimensione dell’intervento del deficit necessario in momenti di crisi. E sto parlando di crisi pre-Covid. Se le regole post-Covid saranno identiche a quelle pre-Covid, andremo incontro alle stesse conseguenze della crisi economica pre-Covid, con in più l’handicap di un tessuto imprenditoriale ancora più pessimista e distrutto dal Covid stesso. In questi mesi si è andati incontro alle sofferenze delle persone, ora non è pensabile non costruire uno scenario di costituzione fiscale per il post-Covid.

In quale direzione ci si dovrebbe muovere?

In questi mesi è apparso chiaro che nei momenti di crisi notevole c’è bisogno di una politica fiscale a supporto dell’economia. Di fatto è stato riconosciuto il ruolo fondamentale della politica fiscale. Siccome ci saranno sempre dei Paesi in difficoltà, abbiamo bisogno di regole che liberino chi è in crisi dalla cappa del Fiscal compact. Il che vuol dire cancellare il Fiscal compact e immaginare nuove regole per Paesi in difficoltà, ricordandoci che questi hanno sempre un debito/Pil alto a causa dell’austerità.

Per il post-Covid l’Europa ha pensato al Recovery fund. Che dunque non basta.

È una condizione necessaria, ma non sufficiente. Va fatto un grande plauso ai governanti che hanno trovato un accordo che mostra un interesse a salvare l’Europa, ma il Recovery fund non basta, perché la sofferenza che abbiamo visto nel periodo Covid, in Italia l’abbiamo avuta per dieci anni per tantissimi imprenditori, tantissimi giovani, con un’economia che, prima dello scoppio della pandemia, ancora non era riuscita a raggiungere i livelli di produzione di ricchezza del 2007, con delle crescenti sperequazioni. C’era un chiaro bisogno di un’attenzione della politica fiscale verso alcuni Paesi, come per esempio l’Italia e la Grecia.

Quell’attenzione che sembra essere arrivata con il Covid.

Sì, ma perché c’è stato uno shock comune. Il punto è che in un’unione di diversi la solidarietà si esprime verso l’ultimo, altrimenti non c’è ragione per l’ultimo di stare in un’unione. A quel punto può stare da solo.

Cosa pensa del Decreto agosto approvato la scorsa settimana?

Penso che il 2020 è il tempo dei sussidi, perché le imprese sono rimaste bloccate e quindi occorre andare incontro alla sofferenza di tutti quelli che hanno patito gli effetti di lockdown e vincoli. Formalmente ciò è stato fatto, ma non mi è chiaro assolutamente se questi soldi siano arrivati nei tempi giusti alle persone e alle imprese che ne necessitavano. La mia impressione è che qualcosa non stia funzionando perfettamente. Dal 2021 in poi occorrono investimenti pubblici e l’Europa ci sta chiedendo proprio questo con il Recovery fund. Vedo però che i 209 miliardi nel dibattito politico cominciano a essere destinati a trasferimenti, bonus, sconti fiscali e questo è preoccupante.

Perché?

Perché sono tutti strumenti meno potenti degli investimenti pubblici, che negli ultimi dieci anni in Italia sono scesi del 4% l’anno. Questo vuol dire che il capitale infrastrutturale, materiale e immateriale del Paese si è estremamente impoverito. È chiaro quindi dove devono essere usati quei 209 miliardi. Dai quali toglierei solo un 10% per dedicarlo, come del resto richiede la Commissione europea, ad aumentare la capacità amministrativa delle nostre stazioni appaltanti, così da garantire che le risorse vengano spese bene.

(Lorenzo Torrisi)