Il mastodontico Rapporto Draghi colleziona ringraziamenti in calce e appuntamenti in giro per l’Europa, ma anche stroncature, come quella venuta da Friedrich Merz, il prossimo candidato cancelliere della tedesca CDU, che in modo prevedibile ha detto no al debito comune invocato da Draghi per finanziare la competitività europea (serve la cifra monstre di 800 miliardi l’anno).



Dunque la domanda diventa quale sarà l’uso di un programma politico che accarezza e rilancia i target che piacciono a Bruxelles indicando strade ad alto costo, economico e sociale, per raggiungerli.

Il Rapporto sulla competitività è un’operazione “trasformista” con la quale Draghi, “espressione dell’estremo centro che guida l’Unione”, trova nuovi argomenti per giustificare qualcosa di vecchio, secondo Agustín Menendez, docente di diritto pubblico comparato e filosofia politica nell’Università Complutense di Madrid. Lo scenario che si prepara è quello di maggiori diseguaglianze e più potere all’apparato militare-burocratico-industriale europeo.



Professore, che ruolo ha questo documento di 400 pagine? 

Non credo sia azzardato dire che l’intenzione evidente di Draghi è che il “suo” rapporto diventi il programma economico della prossima Commissione europea. Dovrebbe essere evidente, però, che è anche un programma politico. Dopo essere diventato presidente del Consiglio italiano, Draghi non può pretendere di essere un tecnocrate au dessus de la mêlée (al di sopra della mischia, ndr). Ed è banale dire che la politica economica è la più politica delle politiche. Detto questo, lascia un po’ perplessi la tempistica.

Per quale ragione?



Sarebbe stato normale, in democrazia, presentare il programma prima delle elezioni europee, e che von der Leyen, come spitzenkandidat del PPE, lo avesse fatto suo. Soprattutto alla luce dell’entusiasmo che mostra oggi. Oppure, che Draghi fosse stato lo spitzenkandidat del PPE.

Qualcuno ha rilevato che tutti i problemi additati da Draghi – dal declino industriale alla crisi del mercato unico e degli investimenti –  hanno la loro causa nel Dna della stessa costruzione europea: è vero? 

Che l’UE sia in aperta crisi esistenziale è evidente. E c’è molta cecità nella diagnosi del Rapporto. Diversa è la parte propositiva, che si orienta a trovare mezzi radicali e qualche volta molto azzardati perché lo status quo non venga essenzialmente disturbato.

Ma c’è un superamento dell’ideologia e del programma di stampo ordoliberale o neoliberale?

Più che neoliberista, il programma di Draghi mi sembra essenzialmente trasformista. Se questo trasformismo gioverebbe alla grande maggioranza della popolazione, è un’altra questione.

In che senso trasformista?

Non è la prima volta che Draghi riesce a fare la stessa mossa che riuscì a Thomas Hobbes. L’autore del Leviatano riuscì a trovare nuovi argomenti, in chiave contrattualista, per giustificare qualcosa di vecchio, ossia il potere del re, nel bel mezzo di eventi nuovi, le guerre civili inglesi. Gli uomini, ha provato a convincerci Hobbes, diventavano liberi di sottomettersi al Leviatano; non facendolo, ne avrebbero pagato le conseguenze. Draghi non è all’altezza di Hobbes, ma la mossa è simile, e di guerre ne stiamo combattendo qualcuna, mi pare. Detto questo, trovo poco interessante il vecchio argomento del carattere strutturalmente neoliberista o neoliberale dell’UE.

Eppure, l’ordoliberismo tedesco è l’ideologia che sta a fondamento dei trattati europei.

Sarei più cauto. È vero che l’integrazione europea, in parte una creazione americana, era indirizzata geneticamente a rendere impossibile una politica economica di taglio “sovietico”. E gli ordoliberali tedeschi sono riusciti a piantare tanti semi nei trattati. Ma l’ordoliberalismo non è mai stato l’unico Dna dell’Unione, non nel 1951, non nel 1957 e nemmeno nel 1992. Anzi. Nel consolidamento dello stato sociale europeo, hanno giocato un ruolo soluzioni e ispirazioni di stampo socialdemocratico e/o democristiano.

Torniamo a Draghi. Cosa pensa delle soluzioni prospettate? Si può ridare competitività all’UE riproponendo gli obiettivi della transizione energetica e della decarbonizzazione?

Prima di tutto, è interessante osservare che il rapporto abbraccia, allo stesso tempo, il protezionismo e la competitività. Si criticano gli “eccessi” del iper-globalismo – lascio al lettore di riflettere sul ruolo che Draghi stesso ha giocato nell’iper-globalismo – e di fatto si propongono quelle che materialmente sono misure protezionistiche: ben inteso contro la China, non contro gli Stati Uniti.

Continui.

Leggiamo nel Rapporto che è prioritario sviluppare una politica estera capace di creare “relazioni speciali” con i Paesi fornitori di materie prime “critiche”. Ovviamente, questi non sarebbero relazioni “di mercato”, malgrado si vestano di “preferential trade agreements”. Allo stesso tempo, però, si parla delle bontà della concorrenza per rendere “efficace” l’economia. Una tale “concorrenza competitiva”, chiamiamola così, nasce dalle lamentele sulle dimensioni “micro” delle imprese europee. Ma ricordiamo che da presidente della BCE, Draghi affermava che di banche in Europa ce n’erano troppe. Non sono premesse irrilevanti.

E se arriviamo alla transizione energetica?

Ci sono due problemi a mio avviso profondamente interconnessi: l’esaurimento delle risorse naturali e il cambiamento climatico. Concentriamoci sul primo. È un fatto che siamo arrivati da tempo al picco della produzione di petrolio a basso costo. La redditività energetica dell’industria petrolifera è in calo dal 1970 e si è aggravata dal 2010. Se la produzione totale è cresciuta è stato grazie al fracking e allo shale oil, molto più cari e molto più inquinanti. Discorsi diversi ma che portano alla stessa conclusione si possono fare su gas, carbone e uranio.

Quindi?

In queste circostanze, quelli che come Draghi puntano sulla crescita quantitativa devono spiegare come sia possibile fare ciò che gli angloamericani chiamo decoupling, ovvero aumentare la produzione materiale diminuendo il consumo di energia fossile. Non è mai successo nella storia dell’umanità e mi sembra contrario alle leggi della termodinamica.

Vuol dire che le aspettative di sostituire il petrolio con l’energia elettrica “pulita”…

Non fanno i conti con la realtà, visti gli irrisolvibili problemi materiali per accumulare energia elettrica. Siamo già nella decrescita, ma è una decrescita molto infelice. Una infelicità aggravata dalle disuguaglianze, anche e soprattutto energetiche. Ma questo non è l’orizzonte del Rapporto.

Draghi non è Timmermans: con molta astuzia, ha adottato un approccio critico verso gli obiettivi europei. È sufficiente per ridare ad essi e fornire al Piano la legittimità necessaria? 

Con ritardo e in maniera quasi spensierata, sul sito della Commissione dedicato al Rapporto si sono aggiunti poche ore fa degli interessantissimi “ringraziamenti”. Credo siano per certi versi più rivelatori del Rapporto stesso, specialmente per quello che riguarda la “paternità” del documento.

Di chi sarebbe espressione?

Non è l’opera personale di Draghi, è un’opera corale, che riflette un compromesso fra le forze di quello che Tariq Ali ha felicemente definito come “estremo centro” europeo, del quale Draghi è una personalità di spicco.

Per colmare il ritardo dell’Ue, secondo il Rapporto, servono 800 mld di investimenti l’anno. La ricetta di Draghi è quella del debito comune. È realizzabile? 

Se prendiamo sul serio i trattati europei, semplicemente non si può fare. Il Next Generation EU è stato già una forzatura dell’articolo 310 del Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea, che rimane in vigore: “Nel bilancio, entrate e spese devono risultare in pareggio”. Per fare quello che Draghi propone bisogna o modificare i trattati o, per dirla in breve, trovare la formula magica perché la Corte Costituzionale federale tedesca non dichiari il tutto incostituzionale. Ma la vicenda è ancora più complicata.

Vale a dire?

Settimana scorsa qualcuno, probabilmente chi sta intorno a von der Leyen, ha filtrato al Financial Times l’intenzione di risolvere il problema di come pagare il debito con il quale si è finanziato il Next Generation EU. La soluzione viene denominata “metodo Draghi”, “extend the debt”, e consiste nell’emettere nuovo debito quando il vecchio arrivi a scadenza.

Ma questo non era consentito nel 2020 e non è consentito adesso. 

Appunto. Visto che l’articolo 310 non è stato modificato, bisogna chiedersi cosa sia cambiato nel frattempo. Che fine hanno fatto i piani della Commissione su una vera imposta europea sul reddito delle società? Perché, qualsiasi sia il problema, la soluzione è più debito?

Perché non un prelievo diretto del risparmio privato? Impossibile che a Bruxelles qualcuno non ci abbia pensato.

È un giudizio che riflette la grande paura italiana dal 1992, un’imposta che espropri i risparmi di notte e a tradimento, stile Giuliano Amato, stavolta su scala più grande. A mio modo di vedere, e l’ho già spiegato al Sussidiario, il vero rischio che il piano Draghi ripresenta è un altro.

E sarebbe?

La vittoria definitiva del derisking state, che usa massicciamente fondi pubblici a beneficio di pochi privati. Accelerando il processo di decrescita infelice e asimmetrica, che abitualmente denominiamo “austerità”.

Eppure tutto si può accettare, se ci sono le motivazioni giuste: ci raccontano in modo martellante che la transizione green, nonostante i suoi costi e le sue contraddizioni, è “indispensabile”. Un po’ come lo sono i cosiddetti nuovi diritti.

Una vera transizione green dovrebbe fare i conti con il consumismo figlio del produttivismo, ma di questa linea di riflessione nel Rapporto non c’è alcuna traccia. Proprio per questo ritengo che il vero rischio sia quello di trasformare problemi veri – la finitezza delle risorse e il cambiamento climatico – nella maschera ideologica del derisking state. Temo che Draghi abbia rimosso la storia francese recente, gilet gialli inclusi.

Nel documento c’è un concetto che ritorna: l’impotenza degli Stati nel mondo globale. Dunque la necessità di più Unione, vale a dire più unificazione, insomma “più Europa”. 

Direi che adesso, in realtà, il ritornello non è più quello del mondo globale ma del mondo in de-globalizzazione, nel quale dobbiamo diventare “realisti” sulle intenzioni dei nostri nemici, che sono tanti. Strano, però, che le nostre infrastrutture energetiche esplodano misteriosamente, e che quelli del Wall Street Journal, per non parlare di Seymour Hersh, ci informino che li hanno fatto esplodere proprio i nostri amici.

In 400 pagine la parola “governance” ricorre 15 volte. C’è un motivo?

Mi permetta di rispondere con una domanda: perché si parla di governance e non di governo? È interessante, visto che il rapporto vuole dare all’UE competenze e poteri che la trasformerebbero, di fatto, in qualcosa di simile a uno Stato; non necessariamente funzionale, ma uno Stato. Perché non parlare allora di governo, semplicemente?

Appunto, perché?

Trent’anni fa si giustificava la necessità del “nuovo” concetto di governance perché tutto sarebbe cambiato dopo il crollo del Muro. I rapporti politici stavano diventando “orizzontali”, non “verticali”, ci dicevano. Sappiamo benissimo come è finita la storia; sappiamo, appunto, che la storia non era finita. Malgrado tutto questo, riecco la governance. Usata ed abusata dagli stessi che parlano di “sovranità europea”, e dimenticano l’esistenza della NATO.

Forse solo ora arriviamo al punto: “difesa” ricorre 83 volte.

Sulla difesa casca l’asino. Il Rapporto in sostanza, fa questo, dice come dare una realtà tangibile all’apparato militare-burocratico-industriale europeo, elemento essenziale del derisking state europeo. Una decisione gravida di gravissime conseguenze.

Alla fine, tutto dipenderà dal peso che i decisori politici vorranno dare al Rapporto. Secondo lei in che misura la nuova Commissione lo farà proprio?

Si è speculato in questi giorni sul fatto che questi rapporti vengono presto dimenticati: si pensi al Rapporto Werner, Marjolin o McDougall. In questo caso, però, potrebbe essere diverso.

Per quale motivo?

Semplicemente perché il Rapporto Draghi non è né l’espressione di varie personalità forti ed originali, né il frutto di un contrasto fra visioni del mondo come quelle che una volta articolavano i partiti politici. Torno ai “ringraziamenti”. Gli estensori hanno consultato più di 60 associazioni imprenditoriali, che rappresentano le grandi corporazioni europee, e soltanto un’associazione sindacale. Non solo il mondo del lavoro, ma tantissime realtà produttive non sono state ascoltate.

Questo cosa significa?

Significa che non è l’originalità del Rapporto, ma la sua calcolata banalità che lo fa essere rilevante. Accontenta tutti coloro che fanno parte dell’estremo centro europeo, da Meloni ai verdi. Ci sono altri programmi in giro?

Pare di no.

Ecco. In Spagna diciamo che “en el reino de los ciegos, el tuerto es el rey”. In italiano si potrebbe tradurre così: “nella repubblica dei ciechi, quello con un occhio solo è destinato a diventare presidente”.

Che cosa ci aspetta?

Tempi, ahinoi, sempre più interessanti.

(Federico Ferraù)

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