“Se compriamo un appartamento in un condominio, ci aspettiamo di trovare delle regole conformi alla legislazione italiana sulle regole di condominio. Ma se troviamo una regola bizzarra e incomprensibile, vuol dire che qualcosa non funziona”. È la sintesi efficace di Enzo Moavero Milanesi, docente di diritto dell’Unione Europea nell’Università Luiss e più volte ministro, per dire quello che non funziona nell’architettura europea, sotto stress per tre grandi crisi consecutive che ne hanno svelato i pesanti limiti. Assetti istituzionali che Moavero definisce “inadeguati”, spiegando come si potrebbe – e dovrebbe – intervenire.
Se ne parlerà oggi al Meeting di Rimini, ospite lo stesso Moavero, nel Talk “il cambiamento possibile. Europa, pace e sviluppo”.
È terminato il programma di sorveglianza rafforzata della Grecia durato 12 anni. “Un ciclo” ha detto il premier Mitsotakis “che ha portato dolore ai cittadini, stagnazione all’economia e divisione nella società”. Cosa ci insegna questa vicenda?
La Grecia ha sofferto molto a causa dei suoi conti pubblici precari e non del tutto trasparenti. Sotto questo profilo, non si possono fare paragoni con l’Italia, la cui realtà è sempre stata nettamente diversa. Ma quanto accaduto impone una riflessione sistemica.
Cosa intende?
La crisi finanziaria del 2008 arriva in Europa dagli Usa e dilaga sull’intera economia, con un peculiare impatto destabilizzante per le strutture dell’euro. Infatti, malgrado le norme monetarie Ue, ciascuno Stato membro si è trovato esposto a un rischio differente a seconda della propria condizione effettiva o percepita. Ad esempio: la Grecia collassò rapidamente; Irlanda e Spagna, che crescevano, subirono un’inversione di rotta; anche l’Italia finì nel mirino della speculazione, mentre tenevano meglio altri Stati, come Germania e Francia.
Quindi?
In questo quadro, inatteso e grave, la reazione Ue è giudicata da molti complessivamente lenta e poco audace.
E a ragione?
Direi di sì. Semplificando, si può dire che si scelse la ricetta del rigore, rafforzando le regole e le procedure volte a limitare il deficit annuale e il debito pubblico dei vari Stati. Lo ricordiamo tutti: è il periodo dell’austerità. Solo nel giugno 2012, grazie all’azione politica dell’allora governo italiano, ci fu il consenso Ue per l’azione della Bce che calmò le acque, inaugurata dal famoso discorso del suo presidente Draghi. Ciò malgrado, la crisi lascia un’eredità pesante, specie perché aumenta le divaricazioni economiche nell’area dell’euro. Questo ci fa capire che servono ricette più efficaci.
Prima è arrivata la pandemia di Covid-19, poi la guerra in Ucraina. La somma degli effetti si annuncia devastante. Qualcuno, però, sembra non sentirci.
Davanti alla pandemia, però, l’Ue cambia schema e per la prima volta si accorda per raccogliere sui mercati, con l’emissione di titoli di debito europei e non nazionali, fondi da destinare al rilancio dell’economia. La novità si deve all’iniziativa di Francia e Germania, ma l’idea non era nuova e in tanti la sostenevamo da almeno un paio di decenni.
Arriviamo così al Pnrr. Ma si accede al finanziamento solo alle condizioni predefinite dal creditore.
I fondi sono assegnati ai singoli Stati Ue in proporzione al calo di Pil subìto per il Covid e vanno destinati a investimenti e riforme strutturali, sulla base di piani dettagliati, la cui corretta attuazione è meticolosamente controllata dall’Ue. I vincoli sono severi, ma il meccanismo risponde a una logica di solidarietà inedita.
In che senso?
Di fronte alla crisi del 2008 si impose a tutti di diventare più diligenti nella tenuta dei conti pubblici. Invece, di fronte alla pandemia, a questo vincolo si è affiancata una leva di stimolo dell’economia che non pesa direttamente sul debito pubblico dei singoli Stati e favorisce i più colpiti. È un passo importante.
Anche la transizione ecologica è uno dei pilastri del Next Generation Eu. Ma rischia di chiudere le nostre imprese.
Penso che i termini della transizione vadano subito opportunamente aggiornati con un accordo a livello Ue, perché il problema è generale. Lo prova quanto è sotto i nostri occhi.
Vale a dire?
L’aggressione all’Ucraina, oltre a inorridirci con i morti e le distruzioni, ha messo a nudo la vulnerabilità europea su più versanti, fra cui l’energia con l’impennata dei prezzi e un possibile razionamento. Allo stesso tempo l’estrema calura estiva e la penuria d’acqua rendono tangibile il cambiamento climatico e impongono di contenerlo.
Qualcuno ha osservato che il Pnrr, essendo stato scritto prima della guerra in Ucraina, che sta cambiando il mondo, appartiene ad un mondo che non c’è più.
È un’altra questione che non va elusa. La guerra ha portato l’economia europea in una terza crisi, dopo quella finanziaria e la pandemia, con un’impennata dell’inflazione. Poiché, i regolamenti Ue già prevedono la possibilità di revisione dei piani, mi sembra logico aprire una discussione, visti gli sconvolgimenti in atto.
Gentiloni a Rimini ha detto che il Pnrr si può cambiare, ma non si può riscrivere da zero.
Appunto: si può cambiare, non avrei titubanze. Occorre attivarsi in sede Ue per riesaminare le misure programmate, eventuali altre idee, i costi odierni e la tempistica. Su queste basi possono vagliarsi le modifiche utili. A quello che so, in ambito europeo non ci sono preclusioni a priori.
Il dibattito italiano?
Lo trovo strumentale ed estremizza le posizioni. Sembra una lite tra chi vuole ridiscutere ogni punto e chi ritiene il Pnrr come il Decalogo, immutabile. La vedo più semplice: è puro buon senso fare una valutazione davanti a una nuova realtà.
Lei ritiene necessario o no modificare i trattati europei? È la gravità della situazione a porre questa domanda, ma pare che a Bruxelles e a Francoforte non ne siano consapevoli.
Se si riferisce al sistema dell’euro e alle sue regole, per intervenire ci sono due strade principali. La prima è modificare gli articoli base dei trattati Ue. Ma ci vuole l’unanimità da parte degli Stati, seguita dalla ratifica di ciascuno che, spesso, passa da un referendum. In pratica, l’esito è molto incerto.
E la seconda strada?
Intervenire sulle norme attuative dei trattati Ue, che disciplinano elementi procedurali e sostanziali: pensiamo al controllo annuale sulle leggi di bilancio degli Stati o alle sanzioni nel caso di un indebitamento eccessivo. Queste norme sono perlopiù dei regolamenti e si possono modificare con un voto a maggioranza nel Consiglio Ue. Un’operazione possibile: per avere la maggioranza necessaria il dibattito sarà teso, ma sempre meno impervio che per l’unanimità.
Ed è l’opzione che lei preferisce?
Temo che cambiare, per esempio, i parametri cifrati per deficit e debito pubblico o altri precetti cardine si riveli arduo e richieda tempi lunghi. È consigliabile andare a risultato prima, con l’inserimento nelle norme attuative dei trattati Ue di elementi più espliciti al servizio di una maggiore flessibilità valutativa.
Ad esempio?
Ne faccio uno: è prescritto che il debito pubblico di uno Stato eccedente il 60% del suo Pil vada ridotto al ritmo di un ventesimo l’anno. Regola netta, ma mai applicata, con motivazioni ogni volta sofferte e discutibili. Andrebbe integrata con riferimenti analitici chiari, più realistici di una cifra: come l’oggettiva sostenibilità del debito e la sua traiettoria discendente, a prescindere dall’ammontare.
Dalle sue considerazioni mi sembra di ricavare due elementi. Il primo è che occorre fare politica presto e bene. Il secondo è una velata sfiducia verso l’attuale leadership europea. O sbaglio?
La prima osservazione è corretta. L’Italia deve muoversi in Europa con assiduità e grande cura dei dettagli e l’Unione dovrebbe avere un approccio più politico e d’insieme alle sfide che sono tante e non più solo economiche. Naturalmente, serve anche competenza tecnica per varare soluzioni su cui possano convergere gli Stati membri.
E sul secondo punto?
Concentrerei l’attenzione sulla progressiva inadeguatezza degli assetti istituzionali Ue. È il cuore della questione: l’Ue è capillarmente presente in certi ambiti e latitante in altri. Così non è in grado di avere un approccio politico comune a tutto tondo, laddove i cittadini se l’aspetterebbero. L’Unione, nei nomi delle sue istituzioni e nella sua architettura, echeggia una federazione, ma non lo è e non è neppure una confederazione in senso proprio.
E allora come al definirebbe?
È un’organizzazione internazionale sui generis, che condiziona molto i suoi membri, ma alla fine dipende da loro, dalla loro capacità di accordarsi con il consenso di chi esprime i diversi governi.
Intende il consenso dei rispettivi elettorati e delle opinioni pubbliche?
Sì. Quando un tema è d’interesse nazionale e divisivo l’Ue si blocca o procede a stento e lenta. In materia di difesa, di politica estera o di questioni tributarie l’Ue fa poco o nulla. Perfino su questioni come energia, migrazioni, salute, dove si decide a maggioranza, la sua azione è insufficiente. Che dire, poi, dell’europarlamento dove i deputati o i gruppi parlamentari non possono fare proposte legislative, prerogativa riservata solo alla Commissione europea?
Che conclusioni trarre da questo bilancio assai poco promettente?
Nel corso degli ultimi vent’anni c’è stata un’oggettiva perdita di peso dei singoli Stati europei sulla scena mondiale e una sequenza di crisi globali. Ci si dovrebbe riunire intorno a un tavolo per una radicale revisione dei trattati Ue, con al centro la questione della forma istituzionale. La federazione, di De Gasperi e Adenauer? O la confederazione, a cui forse pensava De Gaulle? O – lo dico per provocare – un super-Stato centralizzato, incubo dei britannici e di altri? Ci vuole una scelta comprensibile e riconoscibile per i cittadini che alla fine, penso, debbano approvarla con un referendum. Solo così cadrebbero gli alibi.
Quali alibi?
Svariati: per esempio, nell’attuale indeterminatezza istituzionale, con palesi carenze nei pesi e contrappesi democratici, anche la deprecata unanimità diventa una garanzia.
Sono i cosiddetti partiti o Stati “sovranisti” ad allontanare la soluzione?
Incidono meno di quanto si narri. Credo che di fronte a un’esplicita questione costituzionale europea ci sarebbero sorprese su tante posizioni politiche.
(Federico Ferraù)
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