“L’Unione Europea è rimasta in mezzo al guado, senza intraprendere una svolta costituzionale vera. Se vogliamo la svolta, dobbiamo dotare l’Unione di una vera Costituzione e bisogna modificare i trattati base”. A dirlo è Enzo Moavero Milanesi, docente di diritto dell’Unione Europea nell’Università Luiss e più volte ministro, che oggi parlerà al Meeting di Rimini sul tema “Europa unita? Nuove energie per il vecchio continente”.
L’Europa è afflitta da una grave carenza di guida politica, ma se continuiamo a temporeggiare, fra timori e ambiguità”, aggraverà i suoi problemi, anziché risolverli, e la sua marginalità aumenterà. Ecco, secondo Moavero, le riforme istituzionali da intraprendere il prima possibile.
Professore, lei torna al Meeting ad un anno di distanza per parlare di Unione Europea. Non crede che i problemi si siano aggravati?
Porrei la questione in questi termini: l’Ue riesce a essere quel netto valore aggiunto, istituzionale, politico, economico che tutti vorremmo, specialmente dopo l’inedita sequenza di grandi crisi che ci preoccupano tanto?
Lei cosa risponde?
Stiamo ai fatti. L’Unione Europea è una realtà che ci accompagna da più di settant’anni. La sua nascita, con la Ceca nel 1951, dimostra sostanzialmente due cose. La prima: il coraggio e la lungimiranza dei leader di governo dell’epoca – De Gasperi, Schuman, Adenauer, Spaak e altri – permettono di superare tutte le aspre rivalità che avevano diviso l’Europa per secoli, trascinandola da ultimo in una terribile guerra civile, dal 1914 al 1945, che lascia un gigantesco cumulo di macerie. La seconda è la capacità di creare una prima forma di collaborazione fra nazioni ex nemiche imperniata proprio sul carbone e l’acciaio, le risorse strategiche sino allora più divisive, fonte di potenza industriale e militare. È un accordo strutturato che dimostra di funzionare bene e porta, sei anni dopo, alla Comunità economica europea.
Gli archetipi dell’Unione, sempre puntualmente citati. Ma è storia.
Certo, benché indispensabile per capire il presente. La Cee allarga la collaborazione a tutti i settori dell’economia e l’istituzione cresce, portando risultati concreti. Ne ricordo due giganteschi: la pace, solida, duratura come non si era mai avuta in Europa; e la diffusione di un discreto benessere anche per chi non ne aveva goduto in precedenza.
Eppure, nessuno può negare che l’Ue oggi è lenta, farraginosa, deludente.
È vero e infatti le sue strutture funzionali sono quelle degli inizi lontani, sia pure con qualche importante variante. I trattati base sono stati modificati varie volte, però istituzioni, strumenti e meccanismi legislativi sono in ampia misura quelli originari. Due le novità principali che si sono aggiunte al vecchio impianto: la moneta unica e la Bce; e il ruolo legislativo e l’elezione a suffragio universale del Parlamento europeo. Che dire? I fondatori, che avevano la vista lunga e sapevano mobilitare i cittadini, avrebbero sicuramente fatto di più.
Qual è il punto vero?
La verità è che l’Ue è rimasta in mezzo al guado, senza intraprendere una svolta costituzionale vera. È una realtà complessa, interdipendente, ma non è diventata né una federazione, né una confederazione, con assetti collaudati e subito comprensibili.
Quando lei parla dei meccanismi legislativi si riferisce all’unanimità?
È uno dei problemi. Qualcuno dice che si risolve tutto eliminando l’unanimità perché blocca le delibere. L’unanimità vale al Consiglio Ue come regola residuale, in quanto gran parte delle sue decisioni sulle scelte comuni sono prese con la maggioranza qualificata. Tuttavia, il peso reale dell’unanimità è nodale, perché è rimasta per le decisioni cruciali – bilancio, tributi, politica estera e di difesa, e altre – che stanno più a cuore agli Stati, che così hanno una sorta di veto e riducono le insidie alla propria sovranità.
Un altro problema?
Il Parlamento europeo ha un ruolo legislativo, perché serve il suo voto per adottare la maggior parte delle normative Ue. Però non ha alcun potere di iniziativa legislativa. È un’enormità e al giorno d’oggi un vero paradosso istituzionalizzato.
Come si esce da tutto questo? A domanda sull’opportunità di modificare i trattati, lei un anno fa rispondeva che era più opportuno andare a risultato certo intervenendo sulle norme attuative dei trattati medesimi, quelle che disciplinano le procedure.
È sempre un’opzione in campo. È il cacciavite, ma più passa il tempo, meno è risolutivo. Se vogliamo la svolta, dobbiamo dotare l’Unione di una vera Costituzione e bisogna modificare i trattati base. Va riordinato il quadro, eliminati gli anacronismi che impediscono all’Ue di essere una federazione di Stati, come gli Stati Uniti d’America o la Germania, o anche una confederazione, purché ben definita. La questione non è differibile, va affrontata a viso aperto.
È evidente che c’è un “ma” gigantesco. A chi spetta l’iniziativa? Normalmente si parlerebbe di “volontà politica”.
Ci troviamo di fronte a un tipico problema di leadership. Per dirlo in italiano, a evitare malintesi: in Europa c’è una grave carenza di guida politica. Solo da essa può scaturire l’iniziativa di cui stiamo parlando. Si è affievolito, speriamo non dissolto, il bagaglio culturale e politico dei fondatori: la loro visione di prospettiva, il senso della cosa pubblica, l’amor di patria non esacerbato e, ricordiamolo, l’ispirazione cristiana. Dove sono le personalità di vertice in grado di comprendere e portare avanti un disegno positivo e lungimirante per il nostro futuro?
L’ultimo treno utile è stato quello del 2000?
Allora si perse un’occasione. Si usò il nome “costituzione”, ma mancava il contenuto che portasse le forti trasformazioni che già servivano all’Unione Europea. Per giunta, chi aveva responsabilità politiche non seppe spiegare ai cittadini perché valesse la pena di imboccare la strada costituzionale e arrivò il no dei referendum che calò il sipario.
Sicuro che i tempi siano quelli giusti?
Attenzione: i tempi non saranno mai ideali. Non lo erano nemmeno quelli degli anni 50, gravati da odi e ferite della guerra. Ma se continuiamo a temporeggiare, fra timori e ambiguità, ci porteremo dietro le tare che per 15 anni hanno frenato l’Unione. Per essere chiaro, è anche il momento di superare l’orizzonte limitato degli attuali Stati e permettere all’Europa di respirare a pieni polmoni e di farci correre.
Ci dica: quali sono le riforme da fare?
Citerei l’essenziale, seguendo la classica tripartizione. Per il potere legislativo: un Parlamento europeo, eletto dai cittadini, che possa proporre e votare tutte le leggi Ue e lavori insieme a una seconda camera rappresentativa degli Stati; questa c’è già ed è il Consiglio, ma deve avere un ruolo alla pari e non superiore a quello del Parlamento com’è adesso. Il potere esecutivo può andare alla Commissione europea, ma va allargato alle politiche estera e di difesa, da cui oggi è esclusa, e va tolto l’odierno monopolio dell’iniziativa legislativa. Non è neppure bene che la Commissione abbia compiti, come l’antitrust, che normalmente sono conferiti ad autorità indipendenti dall’esecutivo.
Terzo potere, quello giudiziario?
C’è già la Corte di giustizia, ma i trattati le negano la facoltà di intervenire in materia di politiche estera e di difesa. È una competenza che va aggiunta, per consentirle di giudicare la legittimità di queste sensibilissime decisioni.
E poi c’è la Banca centrale europea…
Per disposizione dei trattati, la Bce non può agire come prestatore di ultima istanza, perché c’era il timore che si caricasse del debito pubblico degli Stati reputati cicale. Poi, nel 2012, si è trovata la soluzione creativa delle speciali misure adottate dalla stessa Bce per salvare l’euro dalla crisi economica e finanziaria. Ci vuole una riforma e la Bce deve fare la banca centrale a tutto tondo, cioè deve poter agire come la Fed negli Stati Uniti d’America.
Quindi?
Queste riforme sono tutte fondamentali e ineludibili. L’Unione è un’entità associativa, sebbene articolata; invece, deve diventare un’entità nuova, direi autenticamente “condominiale”, senza più veti e inutili sclerosi.
Cosa risponde a chi vorrebbe temporeggiare?
Inviterei a guardare i grandi scompensi derivanti dalle risposte inadeguate e tardive che l’Europa, con le sue bizzarrie strutturali, ha saputo o non saputo dare alle crisi che negli anni recenti ci hanno investiti, causando cambiamenti profondissimi.
Possiamo vederle brevemente?
La rivoluzione tecnologica. Ci accompagna impetuosa da almeno una ventina d’anni, è il volano della nuova globalizzazione, ha cambiato la nostra quotidianità, siamo interconnessi con il mondo, ma l’Ue è nelle retrovie. I grandi attori – da Google ad Apple, ad Amazon, per capirci – le piattaforme, le reti social nascono fuori dall’Europa. Per di più scarseggiamo di materie prime e di fabbricanti di materiali intermedi come i microchip o di apparecchiature: chi ha uno smartphone europeo?
E poi?
La crisi economica e finanziaria. La risposta c’è stata, ma tardiva e dopo mille incertezze. La crisi finanziaria, arrivata in Europa, a differenza degli Usa o dell’Asia si è mutata in crisi del debito sovrano. L’abbiamo superata solo quando la Bce ha operato, al limite dei suoi vincoli statutari. È il whatever it takes, ma arrivò solo dopo il sofferto via libera del Consiglio europeo del giugno 2012, grazie all’azione dell’allora governo italiano.
Poi è arrivata la pandemia.
Ecco, quando esplode la pandemia Covid-19, gli Usa danno una risposta federale, immediata e con fondi ingenti, senza scordare il risolutivo sviluppo veloce di vaccini. In Europa, in una prima fase, ogni Stato fa per conto proprio: non dimentichiamoci della corsa a tenere per sé le mascherine. Quando l’Ue risponde ai contraccolpi economici con il Next Generation Eu, gli Usa ci hanno già superato per rapidità e risorse stanziate.
È l’ultima grave crisi in ordine di tempo. Al sostegno all’Ucraina aggredita, doveroso e coerente con i valori fondanti, l’Unione arriva per il traino Nato. Ciò detto, sconcerta la sua latitanza nel far valere il proprio Dna di pace. Intendiamoci, fare i mediatori, essendo schierati, non è credibile. Ma è triste non fare nulla, non cercare di muovere uomini e governi di buona volontà su scala internazionale – lo farei in particolare con India, Paesi del Golfo e del Sudest asiatico –; bisognerebbe parlare e visibilmente con tutti, esplorare ogni pista. Ma una politica estera europea non c’è, se non quale mera somma di quelle nazionali o tramite compromessi al ribasso. Purtroppo, gli Stati Ue si illudono nel loro velleitario individualismo.
Scontiamo meccanismi inadeguati?
Sì e l’ho toccato con mano, durante le mie tre esperienze di governo. Meccanismi istituzionali efficaci possono compensare il deficit di capacità politica, e viceversa. Ma nel secondo caso occorre una forza politica di spessore storico. La ebbero De Gasperi, Schuman e Adenauer. Mentre Carlo I, che fu l’ultimo imperatore d’Asburgo e che voleva la pace, non riuscì a imporsi sul Kaiser Guglielmo, né a convincere gli Alleati. Invece, in Italia durante gli anni del terrorismo la nostra democrazia, pur scossa, ha retto perché fondata su una Costituzione solida, apprezzata da noi cittadini.
A maggior ragione dunque i meccanismi inadeguati paralizzano tutto. Da quello che dice, le riforme vere sono indifferibili. Come vede le prossime elezioni europee?
Farei due considerazioni. La prima. Oggi le dinamiche politiche nazionali sono sempre più derivate da quelle europee. Non è più come in passato, quando le elezioni europee erano solo un test per gli equilibri nazionali.
La seconda?
A differenza delle europee del 2019, in cui si contrapponevano due visioni, quella europeista e quella euro-contraria, nel 2024 sarà questione di sfumature, al di là dei toni. L’esito probabile sarà meno rivoluzionario di quanto si narri. Potrebbe esserci un semplice allargamento della maggioranza attuale, detta “Ursula”. Già ci sono popolari, socialdemocratici, liberali e verdi, più il partito conservatore polacco e i 5 Stelle. Domani potrebbe entrare o uscire qualche altro partito: ad esempio, potrebbero aggiungersi altri conservatori come Fratelli d’Italia.
Come fa a dirlo?
L’Europa ha maturato una prassi di maggioranze larghe ed ecumeniche. Torniamo al punto di fondo: in assenza di un assetto politico compiuto, non sono le maggioranze parlamentari a determinare le decisioni che contano. All’opposto, dopo una vera riforma costituzionale anche gli schieramenti politici cambierebbero funzione e dunque fisionomia.
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