Finalmente, il 9 settembre scorso, l’atteso Rapporto sulla competitività, chiesto dalla Commissione europea a Mario Draghi, ha visto la luce. Diciamo subito che il grande merito del Rapporto è quello di aver svolto un’analisi coraggiosa e lucida delle sfide a cui è chiamata l’Unione Europea e delle policies da attuare (meno delle politics, come poi vedremo), necessarie per invertire il trend negativo che la caratterizza ormai da anni, e che costituisce il brodo di coltura della sempre più insistente critica alle istituzioni europee sia da destra che da sinistra.



Il rapporto analizza il mutato panorama mondiale che ha visto via via venire meno i presupposti storici su cui si è fondato il modello di sviluppo dell’Europa, ovvero la difesa militare garantita dagli Stati Uniti, l’importazione di energia a basso costo proveniente dalla Russia e l’esportazione dei suoi prodotti in Cina.



Davanti al venire meno di queste certezze, in ragione della crisi dell’ordine globale, Mario Draghi ridisegna l’agenda strategica dell’Unione Europea, enumerando in primis tutta una serie di indicatori negativi: il reddito delle famiglie americane, che negli ultimi trent’anni è cresciuto più del doppio rispetto a quelle europee; la progressiva riduzione del numero dei lavoratori europei dovuta al calo demografico; il controllo da parte della Cina delle materie prime più importanti nel settore Hi-Tech; il calo di produttività europea rispetto ai grandi Paesi, eccetera. Davanti a questi dati impietosi, che certificano il declino del processo di sviluppo europeo negli ultimi anni, Draghi invoca un “cambiamento radicale”, dal momento che, osserva l’ex presidente della Bce, l’UE deve diventare “padrona del proprio destino”.



Cosa fare? La risposta per Draghi corre lungo tre direttrici. La prima è l’innovazione: all’Europa mancano grandi aggregazioni di università, ricerca e industria. Non a caso, il 40% delle imprese europee che hanno avuto successo ha lasciato l’Europa emigrando negli Usa. In secondo luogo, occorre ridurre il gap del costo dell’energia senza venire meno agli impegni del Green Deal. Il terzo filone riguarda la capacità di saper offrire una risposta integrata nel campo delle materie prime e della difesa.

Si tratta dunque di instaurare una sovranità europea nei settori strategici che richiede un investimento di circa 800 miliardi di euro all’anno, da finanziare in parte con un debito europeo, e una governance maggiormente integrata. Il senso del rapporto è che davanti alle sfide globali del momento presente l’UE, per garantire ai suoi cittadini il rispetto di quei valori e di quegli standard che costituiscono il suo patrimonio culturale e civile, è chiamata a operare un salto di qualità e costituirsi con una sua soggettività politica ed economica, se non vuole sparire dalla storia: “Mai la scala dei nostri Paesi era apparsa così piccola e inadeguata relativamente alle dimensioni delle sfide (…) le ragioni per una risposta unificata non sono mai state così impellenti; nella nostra unità troveremo la forza per riformarci”.

Se il progetto appare lucido nell’indicare agli Stati europei la strada per evitare il declino, esso risulta tuttavia un po’ vago nella capacità di scongiurarlo, cioè nella capacità di indicare i mezzi politici adeguati al fine; rapporto mezzi-fini, sia detto per inciso, che da Machiavelli in poi costituisce l’essenza stessa dell’azione politica. Il limite del progetto consiste appunto nel propugnare delle riforme di governance, mantenendo tuttavia lo status quo della struttura comunitaria, senza modifica dei trattati e lasciando così sostanzialmente il potere di direzione politica in mano ai singoli Stati. La capacità di agire di un’Europa sovrana richiederebbe in realtà meccanismi decisionali indipendenti e autonomi, senza i quali diventa pressoché impossibile realizzare il proposito di un’Europa quale attore indipendente su scala globale. Senza perciò un cambio di paradigma radicale nella struttura decisionale europea, che superi i poteri di veto dei singoli Stati, non sarà possibile instaurare nessuna sovranità europea.

I limiti del progetto Draghi in realtà ricalcano quelli del modello funzionalista in quanto tale, con cui l’Europa è nata e da cui non riesce ad uscire. Esso cerca da sempre di rispondere ai problemi trasferendo competenze all’Unione ma lasciando però agli Stati membri un potere sostanzialmente sovrano. Certamente Mario Draghi è consapevole del fatto che il contesto politico attuale non è favorevole ad una modifica dei trattati. Da questo punto di vista, il suo merito è quello di aver posto in termini inequivocabili la “sfida esistenziale” dell’Europa, e questo programma definisce l’agenda strategica dell’Europa per i prossimi anni. Il fatto che essa sia stata presentata da un italiano rende onore ad un Paese che ha fondato l’europeismo ed è stato un laboratorio politico di idee per tutto il Novecento: si pensi solo al fatto che proprio in Italia grazie a don Luigi Sturzo è nato il popolarismo.

Sviluppo nazionale e integrazione europea sono certamente complementari, fino a quando però i problemi non raggiungono livelli tali da richiedere un’azione piuttosto che un’altra, sia essa nazionale o sovranazionale. In tal caso, le prospettive sono inconciliabili e come tali richiedono una scelta politica di fondo. Non a caso, il grande europeista Altiero Spinelli osservava: “se la costruzione europea si ridurrà ad una sovrastruttura delle restaurazioni nazionali, superficiale, fragile e perciò effimera, o se queste finiranno per piegarsi e subordinarsi all’instaurazione europea è un problema che sarà deciso non da ragionamenti ma da una lotta politica”.

Tutto sembra riportarci al dibattito nato e risolto negli Stati Uniti nel momento in cui, in seguito alla crisi dell’unione confederale, si rese da subito evidente ai padri fondatori l’inconciliabilità tra l’unione federale e la sovranità degli Stati membri. Proprio allora, nel momento in cui la nascente unione americana basata sulla sovranità dei singoli Stati mostrava di non essere all’altezza delle sfide, iniziò un’aspra battaglia politica che vide impegnati uomini come Jay, Madison e soprattutto Hamilton. Quest’ultimo, scrivendo ad un amico, osservava: “i mali che oggi subiamo non sono il risultato di piccole e parziali imperfezioni, ma la conseguenza di errori fondamentali in quella che è la struttura stessa dell’edificio, ai quali non si può ovviare se non modificando gli stessi principi basilari e le stesse colonne di sostegno della costruzione”. L’esito di quella battaglia è la gloria degli Stati Uniti.

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