Avanti, seppur a piccoli passi. I leader dell’Unione europea hanno concordato che, di fronte a una crisi che minaccia di travolgere tutti, virtuosi e spendaccioni, occorre mettere in comune una parte delle risorse per fronteggiare la valanga. Di qui il via libera di principio al Recovery Fund, anche se non è chiaro se prenderà la forma di un prestito o di un intervento a fondo perduto. Facile che, di compromesso in compromesso, si arrivi all’emissione di strumenti ibridi, in buona parte obbligazioni perpetue o a lunghissima scadenza (il Regno Unito ha ripagato nel decennio scorso il debito acceso per finanziare le guerre contro Napoleone). Gli interessi sui prestiti potrebbero essere garantiti da tasse europee sull’inquinamento, flagello che tendiamo a dimenticare nei giorni dei lockdown. Assai meno probabile, però, che passi la linea del contributo a fondo perduto, come gradirebbero Cinque Stelle e sovranisti vari.
Anche il rifiuto delle condizioni del Meccanismo europeo di stabilità ha avuto vita breve: il rispetto di quelle regole, fatto salvo il diritto di uno Stato di non usufruirne, è necessario se si vuole partecipare ai benefici degli acquisti da parte della Bce, in pratica l’unico pilastro che mantiene l’Italia entro la comunità dell’euro. Alternative? Fare da soli voltando le spalle a Bruxelles. In teoria, il risparmio italiano (circa 8 mila miliardi di euro) in grado di far fronte al nostro debito. Ma è assai dubbio che la strategia dell’oro alla patria possa funzionare, almeno in forma volontaria. Qualsiasi alternativa forzosa sarebbe condannata al fiasco. A partire da una patrimoniale imposta solo dalla ricerca di fondi per tappare i buchi in una situazione di forte antagonismo con i principali partners commerciali e finanziari del Paese: sarebbe disastrosa per gli investimenti, i consumi e l’export.
La strada insomma è stretta e irta di sacrifici. Ma non se esce fuori dando la colpa agli altri o accampando, come si è fatto spesso in questi anni, scuse di vario tipo a uso e consumo di un elettorato stressato e avvilito. Che dire del cura Italia? Nelle prime 8 righe del decreto, del tutto illeggibile, ci sono 9 rimandi a leggi precedenti. Brucia il confronto con l’efficienza dimostrata dalla Germania, che non spende per la Sanità in percentuale più che le nostre Regioni.
Insomma, al di là delle chiacchiere da bar in cui eccelle una buona parte dei comizianti di casa nostra. occorre fare i conti con la realtà: la partecipazione al processo di ricostruzione europea è l’unica carta spendibile per il nostro futuro. Finora il Bel Paese che pretende di “farcela da solo” ha destinato alle sue famiglie e alle sue imprese solo un settimo di quanto ha fatto la Germania. E l’Agenzia delle Entrate già scalpita in attesa di poter distribuire le cartelle esattoriali che arriveranno in coincidenza con i primi spiccioli a favore dei cittadini per consentire loro di pagare.
Intanto il debito italiano salirà al 155% del Pil mentre quello tedesco salirà di solo 9 punti percentuali. Il rischio è che lo spread tra le economie salga fino a livelli insostenibili. Certo, non è alle porte una crisi dell’euro, che è sostenuto dagli acquisti della Banca centrale, ma, al di là degli aspetti tecnici, è essenziale che l’Italia, come del resto fanno Spagna e Portogallo, dimostri ai partners di esser consapevole che il nostro futuro è legato al più grande asset dell’Ue, un mercato unico da 450 milioni di consumatori che ha bisogno del supporto dei Paesi del Nord che però non andranno lontano senza la componente del Sud Europa.