Sorpresa, l’inflazione sta scendendo più rapidamente del previsto, arrivando l’anno prossimo fin sotto il 2%, il mitico obiettivo della Banca centrale europea. Una buon notizia, ma a due condizioni: che non sia sintomo di recessione e che la Bce si prepari a ridurre i tassi d’interesse senza chiudere il portafoglio. Per quel che riguarda la frenata del prodotto lordo, possiamo dire che il rischio di una vera e propria crisi non è scongiurato in Europa. Quanto alla politica monetaria, Christine Lagarde giovedì scorso ha indossato le vesti di Turandot. Tutto questo mentre il negoziato sul nuovo Patto di stabilità è ancora in salita, tanto che sembra esclusa una soluzione al vertice di mercoledì prossimo. Ma prima di fasciarci la testa, diamo un’occhiata ai segnali positivi.



L’Eurostat ha diffuso il dato finale sull’andamento dei prezzi al consumo in area euro a novembre 2023. L’inflazione ha registrato un incremento annuale del 2,4%, rispetto al +2,9% di ottobre e al +10,1% dello stesso mese del 2022. Gli analisti si aspettavano un aumento del 2,7%. La componente cibo, alcolici e tabacco ha avuto la più rapida crescita (+6,9% rispetto a novembre 2022). Su base mensile i prezzi al consumo hanno registrato un calo dello 0,5%. Il nocciolo duro (che esclude cibo, energia, alcol e tabacco) indica un +3,6% su base annuale. Ad agosto l’indice generale mostrava un +5,2%, ciò vuol dire che in tre mesi il ritmo si è dimezzato, una frenata davvero rapida. Prendendo le variazioni mensili, Bankitalia calcola che il 2024 si aprirà con un dato compreso tra l’1 e il 2%.



Christine Lagarde ha detto che non bisogna abbassare la guardia e ha negato che si sia parlato al vertice della Bce di ridurre i tassi di riferimento i quali, a questo punto, sono il doppio rispetto al tasso d’inflazione. Se l’andamento è confermato, vuol dire che siamo davanti a una vera stretta monetaria pari a circa due punti percentuali. Che la svolta dei prezzi non sia un fuoco fatuo lo dimostrano le stime della Banca d’Italia, secondo le quali i prezzi al consumo si collocheranno entro il 2% per tutto il prossimo triennio. La Bce può cantare vittoria? Non del tutto, perché le analisi condotte sostengono che “la discesa riflette il netto ridimensionamento dei prezzi delle materie prime e dei prodotti intermedi solo in parte compensati dall’accelerazione delle retribuzioni”.



Altro che spinta salariale, altro che pressione della domanda interna, l’inflazione del 2022-2023 è colpa della crisi energetica o meglio del gas o per essere ancor più precisi, dell’invasione russa dell’Ucraina. A questo punto è legittimo chiedersi se davvero c’era bisogno di portare i tassi da zero al 4,5% in un anno, in assenza di rincorse salariali e di boom dei consumi. Il rimbalzo molto forte in Italia e in altri Paesi ha finito per riportare l’attività economica ai livelli non esaltanti del 2019. Niente bolle, nessun surriscaldamento, ma un balzo, questo sì, del costo del denaro che ha ridotto gli impegni di investimento e allarmato le imprese. Non bastava tenere i tassi un poco al di sopra del 2% e contribuire semmai ad abbreviare la fiammata del gas?

Non vogliamo certo fare i soliti allenatori da bar, tanto più perché la politica monetaria non è il gioco del calcio, i suoi meccanismi sono delicati e sofisticati, palla lunga e pedalare non è certo il consiglio giusto. Ma non c’è dubbio che la Bce, colta di sorpresa, prima ha detto che si trattava di una fase breve e temporanea, poi s’è fatta prendere la mano e per paura di non fare abbastanza, ha finito per fare troppo. E l’ironia della storia vuole che a soffrire di più sia la Germania la cui banca centrale ha premuto a più non posso per quel che chiamava “il ritorno alla normalità”.

Il nuovo scenario dovrebbe cambiare la politica dei tassi. Ma l’anno prossimo nell’ambito del Quantitative tightening (la riduzione dei titoli acquistati in questi anni che ammontano a 3.373 miliardi di euro) arriva una svolta che preoccupa l’Italia: il 27 luglio la Bce ha deciso di interrompere completamente il rinnovo di titoli di Stato (compresi i Btp) del programma Pspp e la scorsa settimana ha deciso che dalla metà del prossimo anno ridurrà di 7,5 miliardi di euro al mese anche i titoli acquistati per affrontare la pandemia (programma Pepp). Non si conosce con esattezza l’ammontare, ma secondo le stime Bankitalia a fine 2022 erano pari a 697 miliardi di euro, a un quarto del debito italiano: 444 miliardi nel piano Pspp e 253 in quello Pepp.

La Bce procederà con cautela, ma si tratterà pur sempre di una stretta. Proprio mentre “l’inasprimento delle condizioni di finanziamento sta smorzando la domanda” e si attende una crescita economica contenuta nel breve periodo. Gli esperti hanno ridotto la stima sul Pil 2023 allo 0,6%, dal precedente 0,7%, e allo 0,8% per il 2024, rispetto all’1%.

Altro che non abbassare la guardia, bisogna abbassare il costo del denaro per non trovarci nella palude della stagnazione.

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