“La liquidazione disordinata del Nuovo Mondo”. È il titolo di un servizio di data journalism pubblicato dal Wall Street Journal che in una dozzina di grafici ripercorre l’ascesa e il declino della stagione dell’economia globale dagli anni ’90 in poi. Una diagnosi firmata da Jon Hilsenrath, uno dei giornalisti più addentro ai segreti della Federal Reserve. In sintesi:
1) Salgono i commerci, scendono le armi
“Trent’anni fa il mondo fu investito da quello che George Bush definì il Nuovo Ordine Mondiale: l’Impero sovietico collassò, la Cina sposò il libero mercato, gli Stati Uniti assunsero il ruolo di guardiano del nuovo sistema”. La conseguenza fu l’ascesa impetuosa del commercio mondiale dal 37% del Pil nel 1990 al 56% attraverso, tra l’altro, la nascita della Wto e l’ingresso della Cina nel sistema, nonché la reazione dell’euro. A render possibile il decollo fu l’espansione del credito oltre le frontiere: dal 27% (anno 1990) al 56% (2007). Negli stessi anni la spesa militare subì una netta contrazione: negli Usa dal 5,6% del Pil al 3,1% del 2001. In Russia al 3,5%.
2) Credito e spesa militare, un legame inverso
Dal 2001, anno dell’attacco alle Torri Gemelle, la spesa militare Usa è tornata a salire fino a toccare il 4,5% del Pil nel 2021. In Russia, sotto Putin, la spesa è risalita al 4,5%. I prestiti internazionali sono saliti dal 26% sul Pil al 56% nel 2007, all’apice della globalizzazione, per poi ritirarsi al 36% nel 2021. Analogamente, gli scambi commerciali tra economie sono saliti dal 37% al 59% del 2007 per poi scendere al 52% nel 2020.
3) Il boom dell’industria globale
Nel corso degli anni è profondamente cambiata l’organizzazione mondiale delle economie. Le multinazionali hanno frazionato il sistema attraverso varie specializzazioni: alla Russia è toccata la fornitura di materie prime, la Cina è diventata la fabbrica del mondo, gli Usa i leader della logistica, finanza e consumi. La produzione e la vendita di legname russo alla Cina, ad esempio, in quegli anni è schizzato dal 3,5% al 31% dell’intera produzione. Negli stessi anni le vendite di mobili cinesi sul mercato americano sono passate dal 4% al 35% del totale.
4) Chi paga i costi del sistema: sale lo stress
Fino all’inizio degli anni Venti il costo dei mobili per gli americani è diminuito in termini reali. Ma in parallelo è crollata l’occupazione nel settore (-38%). L’integrazione globale ha avuto il merito di far uscire dalla soglia di povertà milioni di persone specie in Cina dove si è passati dal 38% di poveri (anno 1990) all’8,4% (2020). Integrazione economica e basso costo del lavoro hanno consentito una forte discesa del tasso di inflazione nel mondo dal 1990 (25%) al 2019 (3,8%). Nello stesso periodo la quota di lavoro manifatturiero nell’industria dei mobili negli Usa è sceso dal 16% all’8,4% del totale.
5) Dai dazi alle sanzioni
Da allora, per compensare il calo dell’occupazione, gli americani hanno usato la leva dei dazi risaliti al 2,8% (2020) dall’1,4% invertendo la tendenza al ribasso dal 1990 (3,3%). Le sanzioni si sono affermate come uno strumento di guerra commerciale: da 112 limitazioni nel 1990 a 411 nel 2021, dopo le misure legate al conflitto ucraino. I dazi e le ritorsioni hanno inciso per il 2,8% del Pil (2020) Nel frattempo l’interscambio commerciale tra Usa e Cina legato alla supply chain è sceso dal 22% (2017) al 18% (2021). Nel 1990 era pari al 4,5%.
6) Il ritorno dell’inflazione
Il Covid-19 e le sanzioni sono all’origine del ritorno dell’inflazione con un impatto di almeno tre punti percentuali dal 3,8% al 6,8%.
C’è un fil rouge che lega guerra, malattie e le barriere tra le nazioni e l’esplosione dei prezzi, insomma. E non illudiamoci che la stretta monetaria possa sconfiggere da sola il demone dell’ascesa dei prezzi. L’inflazione non è capitata per caso o per un errore dei banchieri, bensì è il frutto di scelte politiche (e militari) che hanno spezzato il ciclo precedente. Le banche centrali non hanno approfondito il tema, coprendo non tanto gli errori di politica economica, quanto le scelte che sono state compiute. Anche sul futuro non c’è molta chiarezza. La linea generale sembra essere quella di combattere l’inflazione, ma non a tutti i costi. La Bce, in particolare, non ha i mezzi per andare fino in fondo visto il rischio reale di un’eventuale frattura dell’area euro che nessuno vuole.
Per vincere la battaglia, del resto, bisogna mettere sotto controllo i prezzi dell’energia, missione impossibile in mezzo alle turbolenze. Per vincere la guerra occorre la pace. Altrimenti la Bce non potrà che combattere a metà, con una mano legata dietro la schiena.
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