La candidatura di Ursula von der Leyen per un bis alla presidenza della Commissione, vacilla, a nemmeno una settimana dal congresso PPE di Bucarest. A dirlo è l’eurodeputato popolare Massimiliano Salini (Forza Italia), alla sua seconda legislatura europea. Il segnale più vistoso è stato l’attacco del macroniano Thierry Breton, che su X ha parlato di una candidatura non rappresentativa perché “messa in minoranza dal suo stesso partito”. Lo scontro vero è sulla difesa, spiega Salini al Sussidiario. Alternative non ce ne sono, ma se von der Leyen dovesse ulteriormente indebolirsi, a quel punto andrebbe costruita una soluzione, che potrebbe anche contemplare l’ipotesi Tajani. Con Draghi al vertice del Consiglio europeo.



Molti i temi del nostro colloquio, dalle parole di Papa Francesco sull’Ucraina al provvedimento “Case green”.

Ursula von der Leyen sarà la prossima candidata del PPE alla guida della Commissione. Però a Bucarest i delegati che hanno votato erano poco più della metà. E dopo il congresso i malumori sono aumentati. 



Sottoscrivo la decisione di Tajani di candidare von der Leyen, però è vero, la sua candidatura è incerta. A suo modo è un’incertezza figlia del primo mandato: von der Leyen si aggiudicò la presidenza della Commissione per soli 9 voti di scarto.

Ci aiuti a ricordare meglio.

Il candidato era Manfred Weber, von der Leyen arrivò in extremis per il progressivo indebolimento della sua candidatura, ma la sostituzione ereditò la debolezza della procedura per la designazione dello Spitzenkandidat.

E oggi?

Oggi, dopo cinque anni di governo, non abbiamo una Von der Leyen molto più forte di quanto non fosse nel 2019. Questi cinque anni di Commissione al centrodestra europeo non hanno dato grande soddisfazione.



Per quale ragione?

Perché la forza politica e anche la furbizia del vicepresidente Timmermans hanno prevaricato la presidenza di von der Leyen, al punto da diventare il vero marchio di fabbrica di molti dei provvedimenti adottati. Soprattutto quelli del Green Deal. Non lo dico io: è il primo elemento di rammarico che i popolari tedeschi rinfacciano a von der Leyen.

Mentre il Green Deal va avanti, von der Leyen intende riarmare l’UE per sostenere l’Ucraina al posto degli americani. Non è questa posizione a indebolirla?

No, perché la grande maggioranza del Parlamento europeo sostiene come priorità la necessità che l’UE, oltre ad avere una politica estera, abbia una politica di difesa. Il punto vero è chi guiderà la strategia europea di difesa. Inizialmente Macron è stato il primo sponsor della ricandidatura di von der Leyen, che gli ha promesso il commissario alla difesa, ma poi nell’interlocuzione c’è stato un rimescolamento delle carte e al momento ad essere favorito per quel ruolo potrebbe essere un esponente dell’Est europeo, probabilmente un polacco.

Allora si spiegano così le critiche venute dal commissario francese Breton.

Esattamente. Questo è uno degli elementi, non l’unico, a rendere ballerina la candidatura di von der Leyen.

Qual è la sua opinione in merito? Sul riarmo europeo intendo.

Il fondamento della pace è la condotta della singola persona; compito della politica, i cui fini non coincidono con la moralità dei singoli, è quello di tutelare la loro vita dalle minacce esterne. Per farlo seriamente non ha altro strumento se non quello di dotarsi di un esercito. Non credo che su questo ci siano molti dubbi, il punto è come arrivarci.

Secondo lei?

Una strada maestra c’è: le spese militari non devono più gravare sul bilancio dei singoli Stati membri, ma sul bilancio europeo, ed essere finanziate con l’emissione di titoli di debito europei sui mercati internazionali. È lo schema sperimentato con grande efficacia del Next Generation EU. Anche le recenti dichiarazioni di Draghi vanno in questa direzione. Questo dal punto di vista finanziario. Sotto il profilo industriale, invece, la strada è ben indicata dal programma spaziale europeo.

In che modo?

Le sue infrastrutture, armonizzate e interoperabili – i satelliti Galileo per i sistemi di navigazione, i satelliti Copernicus per l’osservazione, i satelliti IRIS (Infrastruttura per la resilienza, l’interconnettività e la sicurezza via satellite) per garantire l’autonomia strategica dell’UE nel campo delle comunicazioni non appartengono ai singoli Stati, ma all’Unione. Uno schema replicabile.

A quali ambiti vorrebbe estenderlo?

Il primo è quello della difesa, il secondo è quello della strategia energetica, grazie alle sue infrastrutture cross border, il terzo quello dei flussi migratori.

Dunque la difesa insegna.

Sì. Solo costruendo l’infrastruttura comune potremo poi costruire anche una governance che sia non più semplicemente di coordinamento, ma unica.

Lei ha citato Draghi. La stessa von der Leyen si è sempre mossa di concerto con l’ex presidente della BCE. Ma se, come lei dice, la candidatura Von der Leyen non ha gambe così sicure per camminare, è ipotizzabile che il vero cavallo di riserva sia proprio Draghi? 

Questo dipende dal governo italiano, perché per poter fare il presidente occorre essere candidati commissari. Quella di Draghi è una suggestione che certamente affascina, ma che nella politica europea in questo momento non è all’ordine del giorno.

Cosa servirebbe per metterla sul tavolo?

Ci vorrebbe un accordo forte tra Meloni e Tajani per candidare alla Commissione non un esponente del centrodestra italiano, ma un candidato super partes con l’evidente intento di puntare alla presidenza superando ogni ostacolo o riserva. Mi pare più facile che questa strategia possa essere adottata per mettere Draghi al vertice del Consiglio europeo. È anche la sensazione che in questo momento serpeggia a Bruxelles.

E se la candidatura di von der Leyen dovesse ulteriormente indebolirsi?

A quel punto andrebbe costruita un’alternativa. Ma al momento, al di là delle suggestioni, alternative reali a von der Leyen oggi sul tavolo politico non ce ne sono.

Nemmeno Tajani?

In questo momento non è nel suo interesse. Ma sarebbe una candidatura forte, perché non avrebbe nessuna delegazione nazionale contraria.

Papa Francesco ha invitato l’Ucraina ad avere il coraggio di negoziare. Non sarebbe una resa, ma un atto di realismo, ha detto. Condivide?

Intorno alle sue parole sono nate molte forzature, figlie dei capricci di un dibattito tra fazioni contrapposte. Io invece vedo nelle parole del Santo Padre un appello al valore della pace in sé, in qualunque condizione ci si trovi. Sia quella drammatica dell’Ucraina, vittima dell’aggressione russa, sia quella di un continente, come quello europeo, che è chiamato fare di tutto per far cessare il conflitto.

A chi ha parlato il Papa secondo lei?

Non ai vinti, né ai vincenti, ma all’intera comunità politica, all’intera comunità internazionale, Ucraina inclusa.

Venerdì scorso la Commissione ha annunciato l’ennesimo Quadro temporaneo col quale si deroga alla disciplina degli aiuti di Stato per i sussidi da destinare alle imprese che operano nella transizione green. Dunque senza sussidi il Green Deal non si può fare, e le deroghe avvantaggiano certe imprese a scapito di altre. Va tutto bene?

Siamo in un tempo in cui le deroghe sono diventate la regola, le regole del mercato unico sono state stravolte, e la disciplina degli aiuti di Stato è stata tirata e strappata in tante direzioni. Oggi il tema è individuare quegli ambiti che una strategia europea di tutela della competitività deve assolutamente difendere, anche sospendendo le regole europee.

Quali sono questi ambiti?

Quelli strategici della manifattura europea, soprattutto i settori più legati alla manifattura energivora, alla siderurgia, alla chimica di base. Anelli della catena produttiva dove sarebbe tuttora necessario un atteggiamento meno rigido sulle regole del mercato perfetto. Proprio per salvare quei settori senza i quali un’autonomia strategica reale del modello di sviluppo europeo non ci sarebbe. E non è detto che l’ambito da lei ricordato, quello della transizione, sia uno di quelli in cui questa deroga è giustificata.

Non varrebbe la pena ridefinire certi target?

No, questi sono giustamente ambiziosi. Torno a dire: bene le deroghe, come nel caso del CBAM (Carbon Border Adjustment Mechanism). Il modo con cui si è costruito questo progetto è improprio, lacunoso, e quindi si ripresenterà anche lì la necessità di derogare, per non perdere ulteriore competitività sui mercati globali dei settori interessati.

Se l’UE non riesce a reggere il confronto competitivo con potenze come Cina e USA che violano serenamente i target che l’Europa ha assunto come dogmi intoccabili, non varrebbe la pena di ridiscutere i dogmi?

Il punto vero è che l’imputato di tutta questa partita è la WTO, le cui regole di funzionamento sono completamente obsolete. Infatti è ridicolo che all’interno della WTO ci si ritrovi molto spesso, come europei, a fare i professorini che spiegano le perfette regole del mercato, mentre il mercato è conquistato e gestito da altri.

Quindi?

Dobbiamo essere più concreti, ma nello stesso tempo tutelare un modello di sviluppo che si è caratterizzato per essere più sostenibile, sia dal punto di vista sociale che dal punto di vista ambientale. Come? Proteggendo innanzitutto chi quella sostenibilità rende possibile, quindi quelle imprese creative e talentuose che in Europa hanno deciso di investire sulla sostenibilità sacrificando molto spesso investimenti che, sulla base di regole più ciniche, avrebbero consentito loro di essere altrove più competitive.

Non crede che la transizione green europea chieda enormi sacrifici proprio sul piano della “sostenibilità sociale”, cioè massicci licenziamenti? Cosa facciamo? 

Vede, il punto non è ridurre le ambizioni, ma trattarle con l’intelligenza con la quale gli europei da sempre hanno gestito la loro propensione innovativa. In tutti i settori. Green Deal compreso. Il segreto è gestire l’innovazione in modo non ideologico.

Ovvero?

Un esempio su tutti. L’idea che per ridurre le emissioni in atmosfera, nell’ambito della mobilità, l’unica tecnologia possibile sia quella indicata per legge dalla Commissione, cioè il motore elettrico, nega quel modello innovativo, competitivo e libero da vincoli imposti dall’alto che ha fatto le fortune dell’Unione Europea. Si tengano alti i target, lasciando il mercato e la scienza liberi di competere trovando le soluzioni di volta in volta migliori. Così si salvano anche i posti di lavoro.

Oggi in Europarlamento ci sarà il voto finale sul provvedimento “Case green”. Cosa farà il PPE? 

Abbiamo fatto un grande lavoro per modificare l’irricevibile proposta iniziale e l’esito del trilogo è quasi accettabile. Nondimeno, con ogni probabilità le maggiori delegazioni del PPE – quella tedesca, italiana, francese, spagnola – voteranno contro. Come nel caso della Nature Restoration Law, non abbiamo un prodotto finale che ci permetta di esprimere un voto favorevole.

Ammetterà che c’è qualcosa che non funziona in tutto questo. 

Il lavoro di modifica sul compromesso ci ha visto protagonisti, e ha fatto sì che questo provvedimento, che probabilmente passerà, nella formulazione finale sia decisamente meno dannoso di come era all’inizio.

(Federico Ferraù)

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