La Cina è sempre vicina. Chi parla di fine della globalizzazione, di ritorno a un mondo protezionista e a una Cina di cui il capitalismo di oggi – finanziarizzato a leva dispiegata e governato da una oligarchia di top manager stockopzionisti che devono, pena la loro fine sociale, credere nell’accumulazione allargata del capitale sia borsistico sia reale a plusvalore relativo – possa fermare la sua centralizzazione, orbene: non ha capito proprio un bel nulla.
Se fossi ancora sulla mia cattedra sgangherata imporrei con la mia nota dolcezza di leggere Hyman Minsky, Rosa Luxemburg, Rudolf Hilferding e per finire Emiliano Brancaccio, per capire cosa sta capitando. La centralizzazione capitalistica dei tre macrocapitalismi mondiali deve continuare, pena la fine degli oligarchi.
Il primo macrocapitalismo lo abbiamo sulle nostre teste. È il capitalismo centralizzato tipo regolatori francesi e cameralisti tedeschi a moneta unica e senza Banca centrale e Costituzione che ora deve trasformarsi in capitalismo armato per via dell’impossibilità di centralizzare il capitalismo russo espansivo alla vecchia maniera, militare e imperialistica, per paura di un’aggressione e di una subalternità che, per gli oligarchi euroasiatici ortodossi, è inaccettabile.
C’è poi il nuovo capitalismo in via di centralizzazione crescente di tipo africano e indopacifico che sarà una nuova forma di centralizzazione talassocratica, ossia fondata sul dominio dei mari e delle risorse essenziali per le transizioni para-secolari da poco iniziate: energetiche e alimentari. La forza di questa centralizzazione è nelle nuove borghesie africane, indiane e indonesiane post-coloniali. La fine del franco francese e la stabilizzazione doppia indonesiana e indiana hanno segnato l’inizio di un grande processo di centralizzazione capitalistica che si svolge sotto i nostri occhi e che comincia a essere studiata negli USA e nelle università indopacifiche e antipodali (Australia docet) come non mai e nella generale distrazione europea.
Infine il capitalismo ad alta leva demografica e a precoce inserimento nella WTO per favorire le bolle immobiliari e borsistiche generate dagli USA con le loro oligarchie stockopzioniste miste nordamericane-cinesi e sino-teutoniche nel campo tecnologico, insomma la Cina, è quello che, essendo guidato dal meccanismo Market in State, con i capitalisti nel PCC assume un volto più imperialistico aggressivo nella centralizzazione che moderatamente competitivo e ad alta integrazione, come’è il caso dei nascenti capitalismi indonesiani e indiani ossia indo-pacifici senza Cina ma a egemonia nippo-indiana.
La Cina minaccia, ma nonostante gli insulti di un Biden che quando non lecca gelati parlando di tragedie insulta i dittatori cinesi (in Italia abbiamo avuto la brava gente che insultava i sultani della Turchia, quindi sappiamo cosa vuol dire), delegazioni di imprenditori si susseguono, segretari di Stato si affrettano, grandi donne come la Yellen si ripetono con i viaggi e gli omaggi.
Ecco la differenza tra decoupling e derisking. L’accumulazione allargata degli stockopzionisti ha necessità di centralizzare, di integrare, di cooperare. Il limite esiste, certo, ed è quello della sicurezza nazionale.
Gli USA, per fortuna del mondo, non sono solo i top manager. Esistono ancora i militari e i burocrati a vita, ossia quel ceto che da noi le leggi del noto Bassanini hanno polverizzato: i civil servants. Un lascito immortale del Commonwealth, ossia dell’impero e dell’imperialismo britannico. Gli USA ancora li producono, i civil servants. Li producono ancora, ci sia Trump o Biden.
Un capitalismo, quello Usa, a finanza dispiegata e a bolla borsistica sempre latente, ma pur sempre con una Banca centrale, un Parlamento, una Costituzione… Tutto quello che non c è nell’Ue.
La Cina è vicina, ma quello che basta e che serve… grazie agli USA. Chapeau!
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