Che il cosiddetto “caso Fitto” fosse molto più effetto che causa di una crisi politica profonda di un’Europa sbandata lo si era intuito da subito. Esattamente come il “caso Ribera” esploso simmetricamente nelle ultime ore, attorno alla super-commissaria spagnola, candidata a una sorta di “co-presidenza” di Ursula von der Leyen, con le deleghe pesantissime all’Antitrust e alla Transizione verde. Quando i socialdemocratici di Strasburgo denunciano che “la maggioranza von der Leyen non esiste più” il bersaglio è proprio la presidente riconfermata ai vertici della Commissione di Bruxelles. A luglio la fiducia le era è stata votata anche da S&D (oltreché dal Ppe e dai liberali). Ma dopo quattro mesi è cambiato tutto: e il colpo di grazia ai sempre più fragili equilibri europei – fra governi nazionali e famiglie partitiche – è stato dato dall’affermazione di Donald Trump nelle presidenziali Usa.
Il ticket von der Leyen-Ribera (cui poi si era aggiunta anche la candidatura di Raffaele Fitto come vicepresidente delegato ai fondi di coesione) era già nato in un clima estremamente teso e confuso in Europa, all’indomani del voto di giugno. La riconferma della presidente della Commissione (tedesca e popolare) era stata il risultato di una corsa spasmodica di Emmanuel Macron (presidente francese e capo dei liberali europei) e Olaf Scholz, cancelliere tedesco e leader della socialdemocrazia nella Ue. Era stato un loro blitz affannato a imporre “Ursula 2”, sia nel Consiglio Ue che attraverso le consultazioni fra gli euro-partiti. L’operazione aveva programmaticamente escluso il governo italiano (l’unico uscito stabilizzato dalle elezioni europee) ed Ecr, il contenitore politico della destra conservatrice, rafforzato nelle urne sotto la leadership virtuale di Giorgia Meloni. Solo la diplomazia personale di “Ursula” aveva ricucito con il governo italiano e la destra conservatrice: anche negli ultimi giorni Meloni ha aperto al superamento dell’astensione estiva e al sostegno di FdI/Ecr alla nuova Commissione.
Al tempo del blitz di giugno Macron aveva già ingaggiato la scommessa spregiudicata e disperata del voto legislativo anticipato in Francia. Rivelatasi infine perdente: il nuovo premier Michel Barnier (un ex commissario Ue) è un gollista e il suo esecutivo è legato alla “non sfiducia” della destra lepenista. La situazione a Parigi è oggi resa ulteriormente complicata dal fatto che la costituzione in vigore affida la politica estera al presidente, che peraltro ha dovuto incassare sul fronte europeo una sconfitta tattica non piccola, allorché von der Leyen ha preteso dall’Eliseo la rimozione in corsa del potente Thierry Breton, sostituito dal meno prestigioso Stephane Sejourné, con deleghe alleggerite.
Nel frattempo Scholz – egualmente punito nelle urne – ha provato a resistere, ma dopo una serie di sconfitte elettorali locali ha dovuto infine gettare la spugna: la coalizione rossoverde si è frantumata alla prova della manovra 2025 e nei giorni scorsi sono state calendarizzate elezioni anticipate per il 23 febbraio. Con la realistica prospettiva di un ritorno al potere della Cdu, fra l’altro il partito della stessa von der Leyen.
In questa cornice – resa più incandescente dal traumatico cambio della guardia alla Casa Bianca – non è sorprendente che la commissione Ue pronta al decollo si ritrovi bloccata a terra: se non addirittura destinata a non vedere mai la luce nel format fin qui impostato. La posizione della stessa von der Leyen non sembra blindata, nel frattempo entrambi i suoi grandi elettori sono finiti fuori gioco e la resistenza dei socialdemocratici europei sulla vicepresidenza di Fitto è parsa alla fine strumentale a indebolire “Ursula” e radicalizzare in chiave anti-destre la campagna elettorale tedesca. Una competizione nella quale Von der Leyen è anzitutto una esponente di punta di quella Cdu che potrebbe strappare la cancelleria di Berlino alla Spd di Scholz, facendo uscire le sinistre dalle stanze governative di tutta Europa.
Nessun stupore nemmeno quando il Ppe risolleva dubbi sulle super-deleghe alla socialista Ribera (per di più sospetta fin dall’inizio di una sensibilità ambientalista fuori linea nell’Europa odierna). I liberali, nel frattempo, covano forse desideri di rivincita in possibili “tempi supplementari”, dopo le battute d’arresto subite anzitutto dalla Francia di Macron. Anzi: il presidente – più che dimezzato nei poteri oltreché nei pesi parlamentari – ha nella rappresentanza a Bruxelles l’unica carta rimastagli per dare un senso ai tre anni di mandato residui all’Eliseo (sempre ammesso che riesca a completarli).
È uno scenario in cui, a questo punto, nulla può essere escluso. Neppure un qualche richiamo a Bruxelles per Mario Draghi, in questo periodo in tour permanente in Europa per presentare il suo Rapporto sulla competitività Ue. Draghi: una “riserva” – della Repubblica italiana come dell’Unione Europea – anche in virtù delle relazioni con l’America che può ancora vantare.
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