Il discorso tenuto da Mario Draghi al Nabe di Washington per il conferimento del premio “Paul A. Volcker Lifetime Achievement Award” è allo stesso tempo un’analisi e un programma per l’Unione Europea.
La pandemia e lo scoppio della guerra in Ucraina hanno segnato la fine di un mondo, quello della globalizzazione e della vecchia Europa, e ne aprono un altro completamente nuovo. La globalizzazione, spiega Draghi, “ha portato a grandi squilibri commerciali e i responsabili politici hanno tardato a riconoscerne le conseguenze”. Gli effetti si sono visti in Europa che “ha perseguito una politica di accumulo deliberato di avanzi delle partite correnti” (…) “attraverso le errate politiche fiscali procicliche sancite dalle nostre regole che hanno depresso la domanda interna e il costo del lavoro”. Questo è il mondo che si è chiuso; la globalizzazione non è stata un passaggio neutrale, ha lasciato indietro ampie fasce della popolazione e ha determinato il maggiore calo della quota di reddito da lavoro, come nota Draghi, da quando sono iniziati i dati nel 1950. Draghi negli ultimi 35 anni è stato direttore generale del Tesoro italiano, governatore della Banca d’Italia, governatore della Bce e presidente del Consiglio italiano.
La globalizzazione si è chiusa, le catene di fornitura si ristrutturano perché “la guerra di aggressione in Ucraina ci ha poi indotto a riesaminare non solo dove acquistiamo i beni, ma anche da chi”. La globalizzazione, le catene di fornitura lunghe ed efficienti che affondavano in Cina o l’Europa che prosperava anche grazie al gas russo, non è più attuale. Non è più nemmeno possibile accumulare grandi surplus commerciali, come l’Europa ha scelto di fare negli ultimi decenni, perché “o Paesi che vogliono continuare a esportare beni potrebbero dover essere più disposti a importare altri beni o servizi per guadagnarsi questo diritto, pena l’aumento delle misure di ritorsione”. La fine della globalizzazione lascia il modello europeo a terra; un modello che ha prodotto in molti Paesi, con grande lungimiranza, la distruzione della domanda interna.
Passiamo al lato programmatico. Se l’offerta si ristruttura, se bisogna spingere sulla transizione energetica, allora nello scenario che si apre non ci saranno shock da domanda ma shock da offerta. “È probabile che questi shock dell’offerta derivino non solo da nuovi attriti nell’economia globale”, ma “dalla nostra risposta politica per mitigare tali attriti”. Cosa significhi una serie di shock da offerta per i prezzi e per l’inflazione non è un mistero. La politica fiscale, spiega Draghi, è più attrezzata di quella monetaria per affrontarli. “La politica fiscale sarà chiamata a incrementare gli investimenti pubblici per soddisfare le nuove esigenze di investimento. I governi dovranno affrontare le disuguaglianze di ricchezza e di reddito”. Draghi ipotizza poi tassi reali stabilmente più alti di quelli del ciclo che si è chiuso con la globalizzazione.
La ristrutturazione dell’offerta che si prospetta è colossale e risolvibile solo in un lungo lasso di tempo. Questo apre due questioni: quello che succede nel frattempo, gli shock dell’offerta, e il rientro di produzioni da Paesi a basso costo verso Paesi ad alto costo.
Serve un mix di politiche appropriate: “Un costo del capitale sufficientemente basso per stimolare la spesa per gli investimenti, una regolamentazione finanziaria che sostenga la riallocazione del capitale e l’innovazione, e una politica della concorrenza che faciliti gli aiuti di Stato quando sono giustificati.” L’altra metà è la politica monetaria che “dovrà più che mai distinguere tra inflazione temporanea e permanente, tra spinte alla crescita salariale e spirali che si autoavverano, e tra le conseguenze inflazionistiche di una spesa pubblica buona o cattiva”.
Ciò che emerge è una sovietizzazione dell’Europa che dirige la ristrutturazione dell’offerta secondo criteri politici, perché bisogna discriminare con chi si commercia, e ideologici, perché bisogna de-carbonizzare. La politica fiscale e monetaria assumono l’impossibile compito di redistribuire, limitare gli effetti dell’inevitabile perdita del potere d’acquisto e contenere le spinte inflattive che arrivano anche da deficit pubblici strutturalmente più alti. A farne le spese, così sembra, sono i salari immolati sulla strada del contenimento dell’inflazione fino a che l’offerta non sarà ristrutturata. Per tutto il resto ci sono i dazi all’importazione rivestiti di “green”. Non si comprende nemmeno quale spazio ci sia alla libertà di impresa in un mondo che deve dosare investimenti e finanziamenti.
Di tutto questo si discute in un quadro di generale distrazione. I rendimenti delle obbligazioni statali, per esempio, non incorporano uno scenario di ricorrenti “shock da offerta”. Ci si illude poi che dietro a una politica fiscale più pervasiva ci siano gli stessi Governi di sempre, ma non sembra questo il caso se non altro per la distanza siderale che c’è tra istituzioni europee e cittadini. La questione quindi si sposta su un altro piano. Prima o poi la distanza tra percezione e la realtà che si sviluppa si chiuderà e allora si vedrà se la redistribuzione fiscale è sufficiente a contenere gli impatti sociali del nuovo mondo.
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