“L’Italia non rappresenta un problema finanziario per il resto dell’Europa e del mondo, ma una risorsa di risparmio a cui l’estero attinge in diverse forme per la sua crescita. Gli italiani sono tutt’altro che cicale, come una distorta pubblicistica tende a sostenere, mentre sono formiche che lavorano per sostenere molte cicale estere, anche quelle di paesi che hanno un ben differente rilievo economico, come il Canada, gli Stati Uniti, il Regno Unito, il Belgio, la Francia e gran parte dei paesi sudamericani”. Non è la fake news di un sovranista. Lo ha detto il 16 giugno scorso Paolo Savona, presidente della Consob. Parole doverose e serie, che spezzano una narrazione economica fabbricata ad arte riguardante l’Italia ed il suo popolo, spesso descritto come spendaccione e inaffidabile.
Sono ore calde in Italia, tra estate che avanza, Covid-19 e diatriba politica sull’ormai famigerato Mes. Il governo è spaccato e Giuseppe Conte cerca in tutti i modi di guadagnare tempo e di evitare il confronto sul Fondo salva-Stati; il problema ha però oltrepassato i confini ormai molto tempo.
Dalle parti di Berlino si è utilizzata una strategia mediatica che mette in trincea personaggi come il premier dei Paesi Bassi Mark Rutte o in alternativa l’austriaco Sebastian Kurz a difesa dell’austerità europea, come se questa non riguardasse la Germania. Nella realtà invece i giornali tedeschi riprendono di continuo le dichiarazioni di Rutte e Kurz, soprattutto quelle più pungenti verso Roma. Una strategia consolidata (che purtroppo spesso rimbalza anche sui media nazionali) volta a dipingere il nostro Paese come inaffidabile e spendaccione.
Anche la Merkel è scesa in campo, “consigliando il Mes”, tanto da far intervenire Conte. Del resto vicissitudini come Dieselgate, crisi bancaria e caso Wirecard, oltre alla complicata gestione dei macelli, non colgono Berlino in un periodo aureo e quindi è sempre comodo spostare l’attenzione verso l’estero. L’immagine tedesca scricchiola ad ogni scandalo, ma pare che il problema dell’Europa sia l’Italia, dove l’adozione del Mes sarebbe frutto di sano realismo e di due semplici conti della serva.
Ma perché in Germania la spinta è notevole? La risposta è semplice quanto banale: Berlino è l’azionista di maggioranza del Mes.
Il Mes (Meccanismo europeo di stabilità) nasce nel biennio 2010-2011 quando alcuni paesi (non l’Italia) sono ormai in zona default e l’art. 123 dei Trattati europei vieta a Stati membri e Bce di salvare chi in difficoltà (e la tanto decantata solidarietà europea?). Quest’approccio rigido nasce dall’idea che gli Stati non debbano essere incentivati ad indebitarsi (ovviamente parliamo di debito pubblico) e soprattutto non sforino i parametri europei. Ma in quel momento Portogallo, Grecia ed Irlanda erano in crisi profonda, con la Spagna in difficoltà a livello bancario.
Per salvare questi Stati si creò un fondo temporaneo, l’Efsf, che concesse 175 miliardi d’euro, poi sostituito (appunto per aggirare l’art. 123) dal Mes.
Il paradosso fu che il Mes venne creato grazie alle forti pressione italiane: Roma provò in tutti i modi di creare un sistema di debito comune con la Bce a garanzia. Ma Francia e Germania non ne vollero sapere e l’Italia si dovette accontentare del Mes, a cui, ipoteticamente, i suoi titoli di debito pubblico (Bot, Btp e Cct) avrebbero potuto vincolarsi in caso di mancata sottoscrizione.
Il Mes ora ha un capitale sottoscritto di 700 miliardi d’euro (80 sono stati versati) in cui la Germania detiene il 27% e l’Italia il 18%. Fino ad ora il fondo ha elargito denari a Cipro (6,3 miliardi), Grecia (ben 61,9 miliardi) e Spagna (41,3 miliardi). Non senza condizioni: i paesi in questione (ma Madrid per la crisi Covid-19 non ne ha voluto sapere) hanno dovuto firmare un memorandum d’intesa che definisce l’impianto delle riforme possibili. Tali riforme, come ricordano spesso i giornali tedeschi ai greci, devo essere di fatto in linea con l’idea tedesca di economia: riduzione della spesa pubblica e quindi tagli, spesso lineari.
In realtà quindi il problema non è il tasso d’interesse, ma il vincolo legato alle riforme ispirate ai dogmi dell’austerità. Significa investimenti praticamente impossibili, crollo dei consumi ed indotto che va in crisi. L’Italia invece aveva pensato ad un meccanismo di vera solidarietà, fatto di prestiti a tassi bassi per rilanciare l’economia dei paesi in difficoltà con manovre espansive ed anche a deficit, che sul lungo periodo portano ad amplificare i consumi. L’austerità invece, come abbiamo visto nel 2012-13, porta perfino all’aumento del debito – che la Germania vede con orrore – e quindi al rischio di nuovi prestiti.
In pratica aderendo al Mes (da terzi contribuenti) ci metterebbe in una condizione obbligata a livello di riforme, di fatto facendoci perdere competitività. Molte nostre eccellenze andrebbero in crisi, rischiando di essere preda di speculazione, e con un fondo gestito di fatto da Berlino non è difficile capire in quale direzione andrebbero gli acquisti. Del resto ai greci è successo esattamente questo. Il tutto per 37 miliardi, una cifra che al netto degli interessi può essere recuperata con il metodo suggerito da Savona.
Savona ha infatti proposto l’emissione di “obbligazioni pubbliche irredimibili (consols), uno strumento tipico delle fasi belliche”, alle quali il post Covid-19 è stato paragonato. Questi “bond perpetui” potrebbero riconoscere, secondo Savona, “un tasso dell’interesse, esonerato fiscalmente, pari al massimo dell’inflazione del 2% che la Bce si è impegnata a non superare nel medio termine”. Ovviamente la sottoscrizione non sarebbe volontaria e l’offerta quantitativamente aperta. Questa soluzione non graverebbe sul debito pubblico italiano, anzi: si avrebbe una contrazione dovuta al progressivo investimento creato.
Dopo le dichiarazioni di Savona sono arrivate però le sciabolate della Merkel a Conte, con relativa narrazione condita ad hoc: “maxi debito”, “siete indebitatissimi”. I due concetti (pretestuosi) lanciati dalla cancelliera hanno subito attivato i “vassalli” Kurz e Rutte, che in men che non si dica hanno iniziato una campagna mediatica di cui l’Italia è il bersaglio designato, quasi che la crisi economica mondiale in corso avesse il suo epicentro nel Belpaese.
Forse però qualcosa si è rotto: in Italia si torna a parlare di Keynes e di quell’approccio ibrido (il compromesso tra privato e pubblico) che fece volare il Paese negli anni 60-80 del secolo scorso. Il tutto all’ombra degli Usa, preoccupati che la strategica Italia finisca in orbita cinese a causa di quella Germania sempre più legata a Pechino.