Caro direttore,
“Il voto chiuderà l’ambientalismo alla Timmermans” era un titolo-richiamo sulla prima pagina della Verità di ieri. Poteva sembrare, a prima vista, un’eco elettoralista del summit delle euro-destre di Firenze. Invece agganciava all’interno una lunga intervista rilasciata da Alberto Clò: economista di scuola bolognese, fra i massimi esperti di energia in Italia, già ministro dell’Industria nel governo Dini e poi influente consigliere di amministrazione di Eni, Finmeccanica e Snam nella stagione delle privatizzazioni. Soprattutto: Clò è membro dell’inner circle di Romano Prodi e in quanto tale anima della rivista Energia e del think tank Rie (Ricerche industriali ed energetiche), tuttora satelliti di prima grandezza della galassia prodiana.
Le posizioni critiche di Clò verso la transizione verde accelerata e intransigente via via sviluppata dalla Commissione Ue sono note non da oggi: soprattutto dopo lo shake-up provocato dalla pandemia e poi dall’escalation geopolitica. L’ambientalismo energetico del Rie è sempre stato distinto sia da quello europarlamentare incarnato dai verdi sia da ogni estremismo tecnocratico da un lato o ideologico-antagonista dall’altro. È una linea politico-culturale – sempre adeguatamente sostenuta dalla ricerca scientifica e da un’attenzione altamente professionale ai grandi dossier – evidente ed immediata anche in “Il fantasma del Tav spaventa le grandi opere italiane. Consenso e partecipazione nelle politiche infrastrutturali del nostro Paese”: il titolo della tesi di laurea di un giovane ricercatore recentemente transitato per il Rie.
Si tratta di Mattia Santori, improvvisamente balzato sulla ribalta politico-mediatica nel 2019 come leader fondatore delle cosiddette Sardine, movimento inventato dal centrosinistra bolognese per puntellare Stefano Bonaccini ed Elly Schlein (oggi segretaria del Pd), allora ticket elettorale tutt’altro che certo di vittoria nella corsa del 2020 alla guida della Regione Emilia-Romagna. L’ambientalismo “dem” delle stesse Sardine – per quanto convinto e dichiarato – è sempre stato attento a non appiattirsi su quello a ben più alta gradazione verde proprio dei black bloc in azione in Val di Susa. Santori – oggi consigliere comunale per il Pd a Bologna – venne fra l’altro ricevuto con altre Sardine dalla famiglia Benetton, allora ancora proprietaria della Autostrade, privatizzazione prodiana per eccellenza. Analogamente, l’approccio alla sostenibilità socio-economica di Prodi (past president della Commissione Ue) è sempre stato “europeista” senza peraltro attingere gli eccessi tecno-dirigisti affermatisi a Bruxelles. Quando Clò attacca per nome Timmermans, tuttavia, non tutto sembra tornare su uno sfondo squisitamente politico, quello delle elezioni europee del prossimo giugno, peraltro evocate nell’intervista.
Il politico socialdemocratico olandese è da pochi giorni, anzitutto, un Grande Perdente. Il voto dell’Aja, due settimane fa, ha visto emergere la destra di Geert Wilders come prima forza parlamentare. Non è detto che Wilders riesca a formare un esecutivo: è anzi ancora possibile una “grande coalizione” che releghi la destra ancora all’opposizione e veda rientrare i socialdemocratici di Timmermans (secondo partito, ma comunque battuto come i liberali dell’ex premier Mark Rutte). Il giudizio politico sintetico sul voto è comunque già scolpito nella pietra: gli olandesi hanno votato principalmente “contro” l’Europa rossoverde di Timmermans. Il quale – peraltro – per candidarsi come premier nel suo paese si era dimesso a fine estate da primo vicepresidente di Ursula von der Leyen con la delega alla transizione verde. Ed è più che una congettura che abbia tentato una spregiudicata exit in corsa: per evitare di vedersi sconfessato dal voto europeo (o addirittura rinnegato in anticipo dai socialdemocratici europei o nei singoli Paesi).
Il jackpot in casa, però, non c’è stato. La sconfitta di Timmermans ha anzi gettato nel panico la sinistra europea, di fatto asserragliata nella pericolante coalizione Scholz in Germania. Non sorprende affatto, dunque, che sia scattato l’allerta rosso anche presso un mondo come quello prodiano – roccaforte dell’europeismo italiano – abituato a far politica per vincere le elezioni e per governare Paesi o grandi istituzioni. Un prodismo già esacerbato, certamente, dal declino apparentemente inarrestabile del Pd in Italia: prima di quello di Matteo Renzi, poi di quello presentatosi al voto 2022 con il volto (prodiano) di Enrico Letta.
Non è comunque possibile dimenticare che appena quattro anni fa fu proprio Prodi uno dei grandi registi di due operazioni politiche del massimo livello, strutturalmente connesse. A Bruxelles approdò – a sorpresa – von der Leyen, tedesca e popolare. Non votata però dalla “sua” cancelliera Angela Merkel, che fino all’ultimo sostenne come candidato numero uno proprio Timmermans: nonostante il cattivo risultato dei socialisti europei (e i “dem” italiani fra questi). Prodi giocò con abilità dietro le quinte per favorire l’appoggio italiano a Von der Leyen & Timmermans da parte del premier italiano Giuseppe Conte (espressione di una maggioranza M5s-Lega critica verso la Ue di Ppe/Pse/Renew) che fu convinto con la prospettiva di una conferma (“europea”) a Palazzo Chigi mentre il “ribaltone” dell’estate 2019 era già in preparazione. Tutte le palle andarono in buca nell’arco di poche settimane, ma non prima che Prodi in persona lanciasse un nuovo “governo Ursula” (sic) in Italia.
A Palazzo Chigi Conte successe trasformisticamente a se stesso (con l’estromissione della Lega e il rientro del Pd al potere). All’indomani di elezioni proporzionali che in Italia avevano premiato con il 34% la Lega e punito il Pd con il dimezzamento dei consensi ottenuti cinque anni prima, al vertice del Parlamento europeo andò David Sassoli: un “dem” vicino fra l’altro alla Comunità di Sant’Egidio. Il nuovo commissario italiano a Bruxelles fu, non da ultimo, l’ex premier “dem” Paolo Gentiloni.
Quando Clò si augura oggi a gran voce – su un quotidiano non certo simpatizzante del Pd prodiano – che la Ue “chiuda con Timmermans” sembra sorvolare un po’ in fretta su chi, appena ieri, ha intronizzato Timmermans come “zar verde” a Bruxelles. E su chi ha governato l’Europa “dei mandarini” da Maastricht in poi, quella che ha interferito spesso e volentieri anche nel governo diretto dell’Italia.
Se, infine, il nocciolo della questione è l’avvio di una nuova transizione energetica all’insegna del “nucleare pulito”, non c’è dubbio che le decisioni verranno prese all’interno della governance democratica dell’Unione: da una nuova Commissione che dovrà godere della fiducia del nuovo europarlamento (quello in scadenza, nel frattempo, ha tolto la fiducia alla Commissione “Timmermans” su un progetto di regolamento sull’uso di pesticidi verdi in agricoltura). In Italia accadrà lo stesso: se Enel ed Eni cominceranno a investire sul nucleare, lo decideranno i Cda in carica, entro linee di politica energetica definite dal Governo, con la fiducia del Parlamento in carica. E pazienza se il Pd – dopo dieci anni nelle stanze dei bottoni in Italia ed Europa senza aver mai vinto le elezioni – oggi è all’opposizione in Italia ed è sempre più junior partner in Europa. I tempi, d’altronde, sembrano cambiare ovunque rapidamente.
La Germania della grande coalizione “merkeliana” Cdu/Csu-Spd ha spento le centrali nucleari e costruito i gasdotti verso la Russia. Oggi a Berlino non viene affatto esclusa una crisi di governo – se non addirittura un’elezione anticipata – per espellere i verdi e ricostruire da zero, fra l’altro, una politica eco-energetica “non-Timmermans” (ma non certo con gli epigoni e gli imprinting della popolare Merkel o del predecessore socialdemocratico Gerhard Schröder). in Francia può darsi invece che Emmanuel Macron ritrovi smalto e leadership su un nuovo corso nuclearista “anti-Timmermans”: ma è presidente (liberale) di un Paese che ha privatizzato poco, certamente non le infrastrutture che possono oggi rivelarsi strategiche nel ricostruire indipendenza energetica e competitività industriale. Anche in Europa.
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