“La partita del Patto è ancora aperta”, ha detto ieri Giorgia Meloni alla Camera sostenendo la tesi secondo la quale “tutti riconoscono che la posizione italiana è sostenuta da una politica di bilancio molto seria”. Dichiarazioni che sottintendono un rovescio di tale medaglia: cioè che è ancora aperta anche la partita del Meccanismo europeo di stabilità. Un terreno sul quale maggioranza e minoranza si scompongono e ricompongono: Forza Italia favorevole al Mes come il Pd, braccio di ferro tra Lega e Fratelli d’Italia perché i meloniani appaiono per lo meno sospetti di voler usare il Fondo “salva-Stati” come merce di scambio (il famoso “pacchetto”) per alleggerire i vincoli di bilancio.
Il Mes dunque continua a creare ambiguità nella maggioranza. È una diversità che va letta alla luce delle alleanze europee che potrebbero crearsi dopo il voto di giugno. Il nodo sono le posizioni di socialisti e popolari, cardini della maggioranza a Strasburgo. I primi, sulla carta, perseguono un programma progressista molto spinto anche dopo essere rimasti orfani di Frans Timmermans, l’ex commissario Ue olandese che ha accelerato (troppo) sulla transizione ecologica, mettendo in ginocchio le imprese di mezzo continente. Ma non amano Ursula von der Leyen e potrebbero rinunciare alla Commissione se il Ppe, euro-governista per eccellenza, ma assai diviso al suo interno, insistesse sul nome dell’attuale presidente tedesca.
A fare da ago della bilancia tra Ppe e Pse sarebbero i liberali di Macron, Renzi e Draghi, già oggi nell’alleanza europea, pronti ad aumentare il proprio peso politico se il risultato delle urne dovesse indebolire i due partiti maggiori ed esporli alla minaccia di un’avanzata delle destre.
Perché in Europa la destra ha almeno due facce: quella moderata dei conservatori e riformisti di Ecr, rappresentati in Italia da FdI e in Polonia dal Pis, che in questa legislatura hanno sostenuto in modo altalenante l’operato di von der Leyen, e quella arcigna e fortemente eurocritica di Identità e democrazia (il gruppo di Salvini, Le Pen, Wilders, AfD, Fpö e altri). La scommessa dei meloniani è proprio quella di sostituire i socialisti a fianco di Ppe e liberali, con un programma non troppo mutato rispetto all’attuale.
Se questo è il quadro europeo, non sorprende più di tanto vedere – per esempio – Forza Italia che dice di voler essere alternativa ai socialisti ma in realtà non intende voltare pagina, rifuggendo a priori ogni tipo di accordo con la destra di ID; come se questi non avessero più volte, nel corso della legislatura, sostenuto – modificandoli – molti provvedimenti della Commissione e altrettante mozioni del Parlamento, votando insieme ai popolari. In questo FI rispecchia il tatticismo del Ppe: si presenta come antagonista dei socialisti, mentre dietro le quinte si prepara a riproporre lo schema di governo che ha regnato in Europa in questi anni, cementato nell’ultima legislatura da von der Leyen. Né sorprende, come è avvenuto ieri in Aula, che Giorgia Meloni prima attacchi Mario Draghi (“si faceva fotografare con Macron e Scholz ma non portava a casa mai niente”), salvo poi correggere il tiro (“la critica era rivolta al Pd”).
È dunque questo intreccio che consente, forse, di decifrare meglio il gioco dei ruoli in Italia. Forza Italia, come il Pd a sinistra, fa da cinghia di trasmissione delle politiche europee in Italia, mentre la Meloni subisce (da tempo) l’attrazione politica anticipata di una von der Leyen-2: continuità di governo (e dei rapporti istituzionali esistenti) e cooptazione degli alleati occasionali, utili alla bisogna, nel sistema-Bruxelles.
Ma immaginiamo che dalle urne escano sconfitti i socialisti, o che Ppe-Pse non abbiano i voti per continuare a governare insieme, o ancora che si spacchino sulla riconferma della von der Leyen: in questi casi si salderebbe un patto tra Ppe, liberali e conservatori attorno al nome di Mario Draghi.
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