LONDRA — La Withdrawal Agreement Bill, la legge che permetterà al Regno Unito di staccarsi dall’Unione Europea il 31 gennaio, è stata approvata ieri dal Parlamento britannico con 358 voti a favore e 234 contro. È impressionante quanto è stato facile questa volta, con una maggioranza di 124 voti.
Difficile non pensare cosa avrebbe dato l’ex premier Theresa May per ottenere un simile risultato lo scorso gennaio, quando il Parlamento bocciò il suo accordo con 230 voti contrari. Ma era un altro tipo d’accordo, un’altra Brexit (meno radicale e non piaceva nemmeno al suo partito), un altro premier (che aveva votato remain).
Boris Johnson invece può mettere una crocetta sul primo punto del suo programma di governo e prepararsi a trascorrere tranquillamente il Natale: prima legge approvata, tic. Il Parlamento è cambiato, la strada imboccata va nella direzione indicata dal referendum del 2016 e confermata dalle elezioni generali del 12 dicembre. Persino sei membri dell’opposizione laburista hanno votato a favore della legge, contro le direttive del loro partito. C’è voglia di uscire da un’impasse durata troppo a lungo.
Rispetto al Withdrawal Agreement presentato a Westminster a ottobre, quello votato ieri contiene alcune modifiche, la più importante delle quali è che rende illegale estendere il periodo di transizione oltre il 31 dicembre 2020. Il periodo di transizione, durante il quale vanno negoziati gli accordi commerciali, scatterà dal 31 gennaio. In questo arco di tempo il Regno Unito, anche se uscito dall’Ue, farà ancora parte dell’unione doganale e del mercato unico e pagherà ancora la sua quota di contributi a Bruxelles. Ma non avrà più voce all’interno dell’Unione.
Per il governo Johnson un accordo commerciale con l’Ue può essere raggiunto al termine di questo periodo, ma i critici ritengono che non sia realistico. Tra questi ci sono il capo negoziatore dell’Ue Michel Barnier, vari esperti citati dalla stampa, e politici come il leader dell’Snp a Westminster, Ian Blackford, e il laburista Hilary Benn, autore della legge che aveva costretto il premier a chiedere un’ulteriore posticipo della Brexit fino al 31 gennaio (Benn Act). Benn ha agitato lo spettro di una hard Brexit se al termine del periodo di transizione il governo non avrà un accordo commerciale con l’Ue.
Simili timori sulla mancanza di tempo per i negoziati erano stati sollevati a ridosso del 31 ottobre, quando il team di negoziatori inviati a Bruxelles da Boris Johnson si metteva al tavolo con il team di Michel Barnier. Non ce la faranno mai a portare a casa un accordo in una settimana, si diceva. Invece Johnson ha avuto il suo accordo in tempo per essere sottoposto al Parlamento. Sarà stata proprio la mancanza di tempo a forzare i diplomatici a redigere l’accordo? Così pensava il presidente francese Emmanuel Macron, l’unico a Bruxelles contrario a concedere un’ulteriore estensione per la Brexit.
La scadenza di fine ottobre non fu poi rispettata non perché non ci fosse l’accordo, ma a causa dell’opposizione incontrata da Johnson in Parlamento, e in particolare per l’emendamento presentato dall’ex conservatore Sir Oliver Letwin che impediva di votare l’accordo prima che diventasse legge, allungando cosi i tempi della Brexit.
Un anno non è sufficiente per negoziare i rapporti commerciali tra due paesi? Secondo gli esperti ci vuole molto più tempo. Abbiamo visto, però, come il tempo può essere fluido. I negoziatori di Theresa May hanno impiegato quasi tre anni per un accordo sulla Brexit con Bruxelles, quelli di Boris Johnson circa una settimana. Vero è che gran parte dell’accordo attuale ricalca quello della May, ma la differenza nei tempi impiegati resta notevole.
Il periodo di transizione non è la Brexit e Johnson vuole che duri il meno possibile perché si tratta di un periodo in cui il Regno Unito non potrà esercitare la sua sovranità. La sua posizione non è nuova: quando era responsabile degli esteri del governo May si era schierato per un approccio più hard rispetto all’allora capo del governo, secondo la quale ci sarebbero voluti almeno due anni per la fase d’implementazione dell’accordo.
Ad ogni modo, i timori che si vada verso una hard Brexit ci accompagneranno nel nuovo anno. Vale allora forse la pena considerare che una Brexit senza accordi commerciali non danneggerebbe solo il Regno Unito, ma anche un’eurozona dalla crescita asfittica, alle prese con una Germania che ha perso smalto e con una Francia bloccata da scioperi e proteste sociali. Il governo Johnson d’altra parte non ha interesse a danneggiare l’economia britannica, anzi, per attuare il piano di riforme e investimenti che ha in mente ha bisogno di un’economia in salute.