Giorgia Meloni andrà venerdì in Libano. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani a Tel Aviv. Gli attacchi dell’IDF ai soldati dell’UNIFIL, tra i quali quelli italiani, non sono passati sotto silenzio e il governo ha protestato con Netanyahu e il suo esecutivo. Al di là del problema contingente, l’Italia vanta una presenza di lunga data nel Paese dei cedri, dove i militari italiani, a partire dal generale Angioni negli anni 80, hanno saputo lasciare un buon ricordo di sé. In attesa di sapere che ne sarà del contingente ONU che, comunque, spiega Marco Bertolini, generale della Brigata Folgore e comandante di numerose operazioni speciali, in Libano, Somalia, Kosovo, Afghanistan, ha svolto un buon lavoro e rappresenta ancora oggi una garanzia per la popolazione israeliana e palestinese, resta aperta la possibilità che il nostro Paese giochi ancora un ruolo nel dopoguerra.
Intanto Israele valuta come continuare le operazioni militari in Libano: un’azione di terra potrebbe essere controindicata, l’IDF non ha le risorse per mantenere poi il controllo del territorio.
Giorgia Meloni ha annunciato che andrà in Libano, un viaggio che potrebbe preludere a un nuovo ruolo da protagonista dell’Italia nel Paese mediorientale?
In linea generale, l’Italia in Libano ha ampi spazi di manovra, ha una credibilità guadagnata grazie a una nostra presenza costante e una vicinanza culturale, per esempio perché il Libano è un Paese anche cattolico. C’è un rapporto che dura nel tempo, iniziato già nel 1981 con il generale Angioni: il contingente italiano allora aveva lavorato molto bene. L’Italia ha sempre esercitato un ruolo di leadership anche nel contesto dell’UNIFIL: abbiamo impegnato i nostri migliori generali come comandanti di tutto il contingente internazionale, diventando comunque responsabili del settore occidentale verso il mare, dove si trova Naqoura. Sarebbe bello che il nostro Paese tornasse ad avere un ruolo attivo in Libano, ora che ha bisogno di supporto internazionale: sta attraversando una crisi economica pesante e avrà bisogno di ricostruire.
Grazie al passato abbiamo buone credenziali da giocare. Ma possiamo dire la nostra anche in questo contesto di guerra?
Per quanto riguarda la guerra, il discorso è diverso. In questo caso bisognerebbe rivolgersi a Israele: molti stanno conducendo questo sforzo nella comunità internazionale, per spiegare a Tel Aviv che non si può bombardare a tappeto per colpire una persona. Dal punto di vista del conflitto, insomma, la visita della Meloni non serve granché, ma può essere significativa per rafforzare i rapporti con un Paese importante nel Medio Oriente.
L’Italia, insomma, potrebbe fare qualcosa solo dopo la guerra?
Non so quali siano gli obiettivi della visita della Meloni, ma il fatto di aprirsi una finestra di dialogo è importante, perché ci dovrà pur essere un dopoguerra. L’Italia potrebbe essere un interlocutore da parte occidentale, anche se il Libano è terreno di caccia francese: Macron recentemente ha preso posizione in difesa di un Paese tradizionalmente amico. Non possiamo fare concorrenza ai francesi, ma forse abbiamo più chance di loro, da un certo punto di vista, perché la nostra presenza è stata molto apprezzata dai libanesi.
La Meloni dovrà affrontare sicuramente la questione UNIFIL, del cui contingente fanno parte anche oltre mille soldati italiani. Una presenza da confermare?
Quello che succederà all’UNIFIL dipende dall’Onu. Ha svolto un ruolo fondamentale in Libano: l’area tra il fiume Litani e la Blue Line, nella quale opera da decenni, fino a pochi mesi fa era una delle più tranquille del Medio Oriente. Grazie ai soldati italiani, israeliani e libanesi si incontravano per decidere le attività comuni, per disinnescare le crisi o per procedere allo sminamento di fasce di territorio. La popolazione libanese viveva in maniera tranquilla, così come la popolazione israeliana arrivava a coltivare i propri campi fino alla rete di recinzione, nonostante ogni tanto ci fossero degli scambi tra le parti.
Qualcuno dice che UNIFIL non è servita a niente.
Non è vero. Anche oggi, se non ci fosse, non sapremmo niente di quello che succede in quell’area, se non quello che viene comunicato dagli israeliani. UNIFIL non è una forza di imposizione della pace, ma di interposizione: svolge il suo compito già essendo sul posto, perché segnala l’impossibilità di superare un limite, a meno di infrangere le regole indicate dall’ONU. Se non ci fosse l’UNIFIL, i combattimenti sarebbero ancora più sanguinosi. Andarsene vorrebbe dire abbandonare la popolazione locale al suo destino. La missione è fondamentale per la sicurezza locale, per quella libanese, ma anche israeliana.
In Cisgiordania i carabinieri hanno effettuato un sopralluogo a Gerico in vista della possibilità di ripartire con l’addestramento della polizia palestinese. Cosa potrà succedere qui?
Avevamo una missione a Gerico per addestrare la polizia del posto, il ritorno dei carabinieri lì sarebbe un gesto di attenzione nei confronti dei palestinesi che sono abbandonati a sé stessi. Gerico è in Cisgiordania, che non è un’area tranquilla in questo periodo, anche per la presenza dei coloni israeliani che continuano a prendersi la terra dei palestinesi e a rinchiuderli in “riserve indiane” dalle quali, per uscire, bisogna mostrare documenti. Però le forze di polizia sono importanti nei momenti di pace e ora tra le due parti non c’è dialogo.
Tra le soluzioni, una volta concluse le operazioni militari a Gaza, si è parlato di affidare la gestione del territorio a una forza multinazionale garante della sicurezza. Una soluzione che rimane possibile? Anche l’Italia ne potrebbe far parte?
L’attività dei carabinieri non ha niente a che fare con l’interposizione, per una soluzione del genere siamo ancora prima degli albori, visto che le parti non si stanno parlando. Non ci sono le condizioni per una forza di interposizione. A Gaza dove dovrebbe essere posizionata? E in Cisgiordania? Lì non c’è una demarcazione intorno alle zone abitate dai palestinesi o alle colonie israeliane.
L’idea di tornare con i carabinieri, significa comunque che c’è l’intenzione di rilanciare l’autorità palestinese?
Sì, ammesso che a Israele vada bene. Anche perché prima potevamo dire che la Cisgiordania si riconosceva nell’ANP, mentre Gaza si riconosceva in Hamas. Ora, invece, credo che Hamas raccolga la maggior parte dei consensi in entrambi i territori. L’idea di far tornare i carabinieri credo sia degli americani, ma non è detto che gli israeliani accettino, anche se l’addestramento della polizia per loro potrebbe non essere un problema. Sarebbe comunque una presenza che può avere un significato politico.
Intanto la guerra in Libano continua: gli israeliani entreranno a occupare almeno il Sud?
Gli israeliani non hanno sfondato in Libano. Potrebbero aumentare il loro sforzo nelle operazioni di terra, ma non hanno le forze necessarie per controllare i territori, pur vantando uno strapotere tecnologico e aereo. Se dopo le incursioni aeree non si controlla il territorio, dopo un po’ si torna come prima. Israele ha utilizzato delle divisioni per l’offensiva di terra, ma i suoi soldati vengono dalla società civile, alimentano anche l’economia del Paese. Per questo non so quanto possa continuare in questo sforzo. Netanyahu fa un po’ come Zelensky: combatte a Gaza, in Cisgiordania, in Libano, si prepara a rispondere all’Iran, ma non può farlo da solo, ha bisogno di un aiuto sostanzioso, per questo cerca il coinvolgimento degli USA.
Insomma, l’operazione di terra, l’invasione almeno di una parte del Libano, la faranno o no?
Hezbollah sta continuando a combattere anche se decapitata dei vertici, evidentemente ha forze e risorse. In ogni caso un’operazione terrestre richiede risorse, uomini: per Israele non credo sia sostenibile nel tempo. È un Paese di 8 milioni di abitanti e per controllare un territorio esteso c’è bisogno di carri armati e unità di fanteria. È un’operazione che si pone obiettivi che non sono perseguibili. Non è detto che la facciano e, se la fanno, sarà limitata: se fosse di dimensioni maggiori, nel tempo non sarebbe sostenibile.
(Paolo Rossetti)
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