Un uomo solo con un fucile su un tetto. Un cecchino che non sopravvive tanto da poter raccontare il suo gesto. L’Fbi e il servizio segreto subito sul banco degli imputati per grave falla nella protezione (peggio: fra sospetti di connivenza). La scena del crimine dell‘attentato a Donald Trump – ex Presidente ricandidato – presenta più di un’analogia con quella iconica dell’assassinio di John Kennedy, Presidente in carica, a Dallas nel 1963. Qualcuna ne emerge anche con la morte violenta del fratello Robert a Los Angeles nel 1968, quando era a un passo dalla nomination democratica per le presidenziali. Due mesi prima, era toccato a lui annunciare – a braccio, durante un comizio – un altro omicidio a colpi d’arma da fuoco: quello di Martin Luther King.



Shiran, lo sparatore di Robert, era di nazionalità palestinese e confidò anni dopo di aver voluto punire i dem al potere negli Usa per il sostegno a Israele. Tuttora vivo in ergastolo, Shiran ha certamente condiviso con  Lee Oswald (il killer di JFK) e con Thomas Matthew Crooks – il nome dello sniper che ha ferito Trump – uno stesso alone di irriducibile mistero. Un identikit sfuggente di micro-attore storico che improvvisamente leva un braccio violento dalla folla anonima di un Paese sempre troppo grande, profondo e complesso per essere compreso. Un Paese “pistolero” non solo nell’epopea western o di Al Capone o nel lobbismo potentissimo della National Rifle Association.



Gli Usa hanno sparato a tanti Presidenti (l’ultimo è stato Ronald Reagan) e ne hanno assassinati quattro (il primo è stato Abramo Lincoln, secondo “padre della patria” dopo George Washington, al termine di un passaggio massimamente divisivo come la Guerra Civile). In “Nashville” – il grande affresco americano girato da Robert Altman nei duecento anni dell’Indipendenza – non manca una scena che quasi mezzo secolo dopo sembra clonata nei drammatici video live dell’attentato a Trump.

Nel 1972 fu eliminato a revolverate dalle primarie dem per la Casa Bianca il Governatore dell’Alabama George Wallace: controverso campione del Sud conservatore e segregazionista. Qualche noia a Richard Nixon, Presidente repubblicano ricandidato, avrebbe potuto darla. Sopravvissuto su una sedia a rotelle, Wallace continuò a guidare il suo Stato. Naturalmente non credette mai che il suo attentatore, poco più che ventenne, fosse un isolato sociopatico. Ma anche Jacqueline Kennedy non faceva mistero della convinzione che il texano Lyndon Johnson – il vice di JFK che ne prese il posto – non fosse estraneo all’imboscata di Dallas. E sospetti molto più forti circondarono sempre John Edgar Hoover, il leggendario capo-fondatore dell’Fbi, messo sotto pressione dai fratelli Kennedy, Presidente e ministro della giustizia. Hoover, anticomunista viscerale, avversava la nuova frontiera di JFK e temeva di venirne liquidato. Aveva notori legami con la criminalità organizzata: anche quella cui Kennedy non era riuscito a “restituire” Cuba dopo la rivoluzione castrista; anche quella di Chicago, delusa dall’aver appoggiato il giovane candidato nel 1960 per via delle sue origini irlandesi e dell’opaco passato politico-affaristico del padre Joe.



Non sapremo mai davvero chi ha ucciso JFK, né il piccolo mafioso Jack Ruby ha mai rivelato chi attraverso di lui ha subito tolto di mezzo Oswald (un ex marine transitato per l’Urss nel pieno della Guerra Fredda). Sappiamo invece che le quasi 900 pagine del Rapporto Warren – l’esito dell’inchiesta ufficiale sull’assassinio Kennedy – fu un concentrato di fake: a cominciare dalla tesi che fu una sola “pallottola magica” (sparata da Oswald da grande distanza) a uccidere il Presidente. È forse più interessante – a valle dell’attentato a Trump – seguire le traiettorie politiche degli spari di Dallas (e poi di Memphis e di Los Angeles).

Anzitutto: allora come ora l’America era lacerata al suo interno e in guerra calda (in Vietnam) e fredda (contro la Russia sovietica e la Cina maoista). È vero che il memorabile “Dream” libertario e progressista di MLK soffiava nelle vele di JFK e sospinse poi quelle di Johnson. Ma è anche vero che furono gli Usa kennedyani ad andare in escalation in Vietnam e a infiammare le università di un pacifismo “antimperialista”. Ma Kennedy era ormai nel cielo dei santi laici e a farne le spese fu Johnson, costretto a non ricandidarsi nel 1968 (ed era stato eletto a mani basse nel 1964 ancora su un’inarrestabile onda politico-emozionale).

È vero che nel 1968 i “dem” persero il loro candidato di punta (fratello di “San Kennedy”), ma la vittoria di Nixon – sconfitto leggendario da JFK nel 1960 – risultò politicamente molto solida. Il redivivo candidato repubblicano, risvegliò una maggioranza silenziosa che esisteva davvero in un’America anzitutto stanca di un decennio di miti ed esperimenti socioculturali all’insegna di ciò che oggi è maturato nel politically correct. Nell’agosto di quell’anno fatale fu la convention democratica (non quella repubblicana) a mettere a ferro e fuoco Chicago. Cinquantasei anni dopo, fra un mese, è nella stessa città che i dem saranno chiamati a incoronare il loro candidato per novembre: dopo il lungo inverno delle università occupate dai movimenti filopalestinesi, soffocati da autorità accademiche e poliziotti di metropoli democratiche, non repubblicane.

Nei sei anni che seguirono, Nixon –  dal 1952 al 1960 alla Casa Bianca come vice del generale Eisenhower, padre della Guerra Fredda – chiuse la guerra in Vietnam, avviò la distensione con l’Urss, volò in Cina per staccarla da Mosca e aprirla all’Occidente. Fu poi brutalmente estromesso da un “attentato” molto particolare: il caso Watergate, ultimo ricatto dell’Fbi nell’immediato dopo-Hoover, attuato dai giornali liberal della cerchia kennedyana, animati da un odio viscerale per Nixon.

P.S.: L’attentato a Trump ha un beneficiario certo. È il premier israeliano Bibi Netanyahu, la cui vera scommessa – dal 7 ottobre in poi – non è stata neppure l’attesa della rielezione dell’amico Donald (un anno fa tutt’altro che pronosticabile), quanto l’indebolimento progressivo del Presidente Biden, suo affannato frenatore nella guerra di Gaza. Ora il percorso sembra completato: anche se al Presidente uscente venisse a questo punto concesso dal suo partito di correre in autunno contro un (ex) Presidente che ieri è sembrato aver superato la più dura ed emblematica delle prove per la rielezione.

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