Molto è stato scritto sui motivi del successo di Trump, così come si sono fatte previsioni sulla sua prossima azione di governo, che peraltro comincerà formalmente tra due mesi, lasciando ampio spazio ad ulteriori commenti e ipotesi.
Quello che si può dire, senza paura di essere smentiti dai fatti futuri, è che il successo dell’uomo del Queen segna la sconfitta politica definitiva e il tramonto culturale di una follia che si è impadronita degli Stati Uniti e dagli States si è diffusa a cascata nel mondo. La cultura woke, il politicamente corretto, la cancel culture, la visione dell’uomo come macchina desiderante a cui tutto è permesso, senza nessun limite, felicità come espansione illimitata dei diritti individuali a partire dal proprio corpo, storia come foglio bianco su cui scrivere quello che si vuole. Una cultura radicale di massa che va ad incontrarsi senza soluzione di continuità con le trasformazioni sociali legate alla tecnica e al lavoro che hanno proletarizzato settori ampi di classe media, spaventandola per un futuro dove l’incertezza sociale ed economica viene moltiplicata dall’attacco alla cultura tradizionale, al normale buon senso.
Con il risultato di vedere gli esseri umani ridotti ad atomi anonimi in tutte le dimensioni sociali.
E qui sta il punto forte di Trump: una visione della politica dove la dimensione morale incrocia la strada dell’economia in un attacco anche violento e a tratti volgare contro le élite. Ma qui si innesta anche la campagna contro gli immigrati, perché visti come mano d’opera non qualificata che immediatamente fa concorrenza proprio a quella massa di proletariato che si trova minacciato su tutti i fronti.
Il secondo punto, che segna a sua volta una battuta di arresto dei democratici, riguarda la fine della svolta giudiziaria della politica, che – ormai è risaputo – non era un triste primato della situazione italiana, ma una tendenza presente in tutti i Paesi occidentali. Stiamo parlando dell’espansione del potere giudiziario al di fuori dei confini un tempo “naturali”; da cui la criminalizzazione dell’avversario politico, trasformato in nemico, in criminale da togliere dalla scena politica.
Il terzo punto di assoluta distanza culturale e politica è nella politica estera e nella visione dei conflitti. La visione di Trump non è quella del bene contro il male, della luce contro le tenebre, dell’esportazione della democrazia a tutti i costi tipica dei democratici. La stella polare della nuova politica americana sono gli Stati Uniti, gli interessi di Washington. Non ci sono maschere ideologiche, belletti e trucchi. Il ragionamento è semplice e lineare. Prima l’economia.
Queste sono le direttrici, se vogliamo pre-politiche, culturali, che segneranno l’azione presidenziale. Sono ancora a maglie troppo larghe per definire una vera e propria Grand Strategy. Un conto è dire la verità, che il re è nudo, un’altro disegnare una strategia realistica. Un conto in Ucraina è affermare che è irrealistico per Kiev voler riprendersi la Crimea, un altro offrire una exit strategy che non umili gli alleati e che convinca Putin. E così via, passando dal caos mediorientale a Taiwan e alla Cina, dove per esempio, a sentire i discorsi in campagna elettorale, si vuole riequilibrare la bilancia commerciale con l’Impero di Mezzo a costo di introdurre una guerra tariffaria, e si chiede a Taiwan di spendere di più per la difesa, proprio mentre gli USA hanno un estremo bisogno dei semiconduttori dell’isola.
D’altronde, le singole crisi mondiali non sono isolate. Non si può pensare di risolvere la crisi ucraina lasciando che la Russia continui la sua stretta collaborazione con la Nord Corea e con l’Iran. Tutto si tiene.
Chi rischia di più come al solito è l’Unione Europea, che si trova in una situazione drammatica. Da una parte una leadership che dire debole è un eufemismo, con l’asse trainante franco-tedesco ridotto a niente, con un’economia del Paese-locomotiva in piena crisi e con un modello industriale basato sull’auto e sugli approvvigionamenti energetici a buon mercato ormai tramontati anche grazie alla guerra in Ucraina e alle scelte imposte dall’alleato americano.
Quello che è certo è che il giudizio politico sulle azioni degli altri Paesi e specialmente del primo alleato dovrebbero iniziare dalla domanda centrale. Che cosa è bene per l’Italia? Qual è il nostro interesse nazionale? Speriamo domande destinate a non rimanere senza risposta.
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