Donald Trump è il primo presidente degli Stati Uniti a venire incriminato. Lo ha fatto la Procura di Manhattan muovendogli contestazioni in merito al pagamento di 130mila dollari alla pornostar Stormy Daniels per evitare che fosse resa pubblica la loro relazione. Potrà ugualmente candidarsi alle prossime elezioni presidenziali, anche in caso di condanna, ma ora dovrà farlo gestendo una situazione molto delicata. Non tutti, anche in campo democratico, sono convinti della solidità dell’accusa, che comprende 30 capi di imputazione tutti riferiti alle stessa vicenda, nei suoi confronti però ci sono anche altre indagini ben più gravi che potrebbero aggravare la sua situazione.



I repubblicani lo difendono ma alla fine non è detto che scelgano lui per contrastare Biden, che al momento resta il più probabile candidato dei democratici. “Il problema di Trump con gli elettori, almeno con quelli che lo hanno votato non in modo convintissimo – dice Andrew Spannaus, giornalista americano fondatore di Transatlantico.info e conduttore del podcast House of Soannaus – è che lui ha perso le elezioni 2020, ha perso male, si concentra tutto su sé stesso, sul complotto contro di lui, invece di concentrarsi sulla sostanza delle cose. Fare la vittima lo aiuta solo con la base che è già convinta, non con gli altri”.



Qual è nello specifico l’accusa che è stata rivolta a Trump?

Per quello che sappiamo ci sono 30 imputazioni, tutte per lo stesso caso, anche se devono essere ancora pubblicate. L’accusa però è un po’ contorta e non è particolarmente forte. Trump non è accusato di aver pagato una pornostar perché non parlasse di una loro breve relazione, questo non è illegale, è accusato intanto di aver detratto la spesa come spesa legale, un errore enorme da parte sua. E poi di averla utilizzata come spesa per la campagna elettorale. Quindi il procuratore dello Stato di New York cerca di legare il reato di una partita contabile falsa a un reato più grave che è quello della violazione delle norme sul finanziamento della campagna elettorale, un felony, un reato più grave. Dalla sua parte il procuratore ha il fatto che Michael Cohen, l’ex legale di Trump, è stato incriminato ed è andato in carcere per questa falsificazione. Quindi un precedente c’è.



Il legale ha anche collaborato?

L’avvocato ha anche raggiunto un accordo e patteggiato. Questo è un punto a favore del procuratore. Però dall’altra parte bisogna dire che anche gli oppositori di Trump riconoscono che non è l’accusa più forte. Ce ne sono altre ben più forti.

Qualcuno paragona questa incriminazione a quella di Al Capone, non nel senso della gravità dei reati, ma per il fatto che anche lui era stato incriminato per una vicenda minore rispetto a quello che gli veniva comunemente attribuito.

Diciamo che in America si prendono sul serio le regole sulla campagna elettorale e sul fisco. Il paragone regge solo per il fatto che ci sono molti che vogliono far fuori Trump a livello politico: Alvin Bragg, il procuratore, sicuramente è uno che ha cercato più modi per “beccare” l’ex presidente, convinto che Trump sia uno che gioca sporco. D’altra parte i cosiddetti reati di Trump sono politici, non sono i reati di un mafioso. E abbiamo visto l’abuso di questo modo di procedere in passato: il Russiangate è stato un tentativo di incastrare lo stesso Trump e tanti altri sulla base di un teorema politico, ritenendo che operasse contro le istituzioni.

A lui però, in generale, vengono contestate vicende ben più gravi, come quella dell’assalto a Capitol Hill. Rischia l’incriminazione anche per altro?

Rischia per le altre indagini forse oggi più di ieri: proprio perché quella di New York è un’accusa più debole, a questo punto diventa importante per chi sta indagando su Trump esplicitare le accuse più serie. Ci sono due casi. Uno è la Georgia, dove ha detto: “Trovatemi 11.780 voti” cercando di sostituire i grandi elettori per vincere lo Stato. Ha sicuramente esercitato pressioni, quanto sarà reato lo dovranno decidere i Tribunali. E poi c’è la questione di Capitol Hill. Anche lì non è facile giungere a un’incriminazione. È chiaro che ha una responsabilità politica, ma arrivare a quella penale non è così facile. A parole aveva detto: “Andiamo senza violenza”. Le indagini stanno cercando di capire i contatti di Trump con chi voleva bloccare la procedura del Congresso.

È probabile che questa incriminazione dia un’accelerata anche alle altre inchieste?

Credo di sì.

Una volta incriminato può candidarsi lo stesso alle presidenziali?

Certo, la Costituzione non lo vieta, non sarebbe il primo, ma sarebbe il più noto a farlo. Martedì prossimo si presenterà a New York, gli prenderanno le impronte digitali, gli faranno la foto segnaletica e se va bene non gli metteranno le manette, sarà rilasciato perché non si tratta di un reato grave ed è poco probabile che, anche se condannato, andrà in carcere. Può candidarsi. Certo, con l’accusa di aver cercato di sovvertire l’ordine democratico sarebbe diverso: la Corte federale potrebbe impedirgli di diventare di nuovo ufficiale pubblico.

Il processo potrebbe iniziare anche tra un anno, ma se venisse condannato manterrebbe l’eleggibilità?

Sì, la condanna non inficerebbe la sua candidatura.

Qualcuno dice che questa incriminazione potrebbe anche fargli gioco, perché così può recitare la sua parte di vittima di un complotto.

Non c’è da crederci. Nel breve termine può infondere energia tra qualcuno dei suoi sostenitori, costringere molti repubblicani a difenderlo, questo è vero, ma nel medio e lungo termine non lo aiuta.

Allo stato dei fatti rimane ancora il candidato più probabile dei repubblicani?

Probabile no. Possibile sì, ma nonostante il leggero recupero nelle ultime settimane lo vedo in discesa.

All’interno del partito, al di là della difesa di facciata, come lo vedono?

I dirigenti del partito, i politici attivi, sanno bene che Trump li porterebbe alla sconfitta. Alcuni lo dicono, altri non si espongono pubblicamente ma dietro le quinte sanno molto bene che è così e quindi vogliono trovare un’alternativa. Per un po’ di tempo questa situazione renderà l’operazione più difficile, in realtà rafforza la convinzione che Trump è un peso per il partito.

L’alternativa è ancora DeSantis?

L’alternativa per il momento è DeSantis, altri potrebbero emergere, per ora solo DeSantis ha mostrato la capacità di parlare sia all’ala populista che a quella istituzionale.

Insomma da questa situazione Trump ha solo da perdere?

Alla lunga ha poco da guadagnare. Tenta di presentare in modo positivo una cosa che in realtà teme molto, cioè di essere etichettato come un criminale.

In campo democratico, invece, Biden è sempre saldamente il candidato più accreditato alla Casa Bianca?

Biden resta il candidato più probabile, è molto deciso a candidarsi ed è molto difficile fermare un presidente che vuole farlo. Ha lavorato abbastanza bene, meglio del previsto. Tuttavia ha 80 anni e questo desta molte preoccupazioni. Ad oggi probabilmente vincerebbe, tra un anno e mezzo bisogna vedere.

Nel partito c’è qualcuno che potrebbe scalzarlo?

Ci sono vari candidati che potrebbero emergere, ma contro di lui è molto improbabile che ce la facciano.

La questione della guerra che peso può avere nella campagna elettorale? È vero che Biden punta a presentarsi alle elezioni a conflitto chiuso?

La guerra non fa bene ai politici americani, se non per un tempo molto breve. Tutti sanno che bisogna evitare il più possibile l’interventismo all’estero, mentre l’establishment è molto deciso in questo momento a sostenere l’Ucraina con forza. C’è un grande divario tra quello che si dice pubblicamente e le preoccupazioni dietro le quinte. Confermerei che Biden, come altri nell’amministrazione, vorrebbero trovare una via d’uscita, che possano presentare in modo positivo, evitando un conflitto che sta andando avanti troppo a lungo e in cui gli Stati uniti devono impegnarsi sempre di più. Si aprono a troppe critiche. Gli elettori non vogliono sentire parlare di interventi militari in giro per il mondo.

Una via d’uscita che deve essere per forza diplomatica, a questo punto.

Si dice che l’Ucraina vincerà militarmente ma sanno che occorrerà un compromesso.

Ma su quali basi sarebbero disposti a trovare un accordo?

Qualcuno ha già detto dietro le quinte che bisognerà cedere un po’ di territorio, congelare la situazione e trattare. Pubblicamente, invece, non si vuole dire, ma si punta sulla massima pressione su Putin per convincerlo a ritirarsi.

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