Ieri al primo volontario è stata inoculata la dose del vaccino tutto italiano Rottapharm-Takis presso l’ospedale San Gerardo di Monza, dando così avvio allo studio di Fase 1 del siero anche allo Spallanzani di Roma e all’Istituto Pascale di Napoli, dopo l’autorizzazione di Aifa. Sempre ieri AstraZeneca ha annunciato di essere disponibile a “cedere le licenze di produzione del vaccino anti-Covid per far sì che si possa accelerare”, l’Unione Europea ha assicurato che le consegne “aumenteranno nei prossimi mesi” e per questo “è essenziale essere preparati per le campagne di massa”, mentre l’Ema – in procinto di autorizzare il siero di Johnson&Johnson – ha promesso che snellirà le procedure di approvazione dei vaccini. Tutte buone notizie, ma tutte che guardano al futuro. Il presente è fatto ancora di mancate consegne e di campagne vaccinali che procedono a rilento. Difficoltà e problemi che ha ben presenti Silvio Garattini, fondatore e presidente dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, che proprio ieri dalle colonne di Libero ha lanciato l’allarme: “Il governo si è fidato della Ue e ha sbagliato. L’Italia produca il siero o non ne usciamo”. E al neopresidente Mario Draghi, che nell’ultimo vertice ha sollecitato i partner europei ad accelerare sulle vaccinazioni, offre un consiglio: “Si istituisca una squadra di esperti che conoscono il mondo dei vaccini”, cui affidare tre compiti: “Fare accordi il più possibile con gli altri produttori; prepararci a produrre noi direttamente i vaccini anche per i paesi poveri del mondo; studiare le varianti del Covid per avere vaccini più nuovi”.
Lei chiede che l’Italia si metta a produrre i vaccini. È una cosa necessaria? E siamo in grado di farlo?
Il problema è che in questo momento dipendiamo completamente dagli altri. Non abbiamo un nostro vaccino, se non quello che si sta sperimentando, ma è ancora in fase iniziale. Se vogliamo avere la possibilità di vaccinare, dobbiamo fare accordi il più possibile con gli altri produttori, come Johnson&Johnson, come Sputnik, eventualmente come i vaccini cinesi.
Basta questo?
No. Siccome non siamo purtroppo alla fine del processo, con questo virus faremo i conti ancora per diversi anni, dovremmo anche prepararci a produrre vaccini per conto nostro, perché le varianti che circolano possono non essere sensibili ai vaccini attuali e quindi potremmo aver bisogno di nuovi vaccini.
Quindi, produrli e studiarli?
Dobbiamo sì produrli, ma prima di tutto studiarli, sostenendo la ricerca per trovarne di nuovi.
Lei sostiene che la Ue ha sbagliato, ma dire questo oggi non basta. Non a caso Draghi ha spronato l’Europa ad accelerare. Che cosa dobbiamo fare?
Tre cose: dobbiamo avere la possibilità di prenderli da chi li produce; dobbiamo avere la possibilità di fabbricarli noi; dobbiamo avere la capacità di studiare le varianti che circolano, perché AstraZeneca non è più efficace sulla variante sudafricana. Se si diffondesse molto sarebbe inutile avere un vaccino che protegge solo al 20% al massimo.
Perché è importante studiare le varianti?
A fronte di 200mila analisi genomiche fatte in Gran Bretagna su singoli virus, il che permette di tracciare con precisione la situazione, in Italia ne facciamo un paio di migliaia. Non dobbiamo solo verificare se le varianti che circolano fuori hanno attecchito anche da noi. Dobbiamo guardare quali sono le varianti che abbiamo noi e qual è la frequenza delle singole varianti. Ci vuole un Consorzio che si metta a studiare queste varianti.
In realtà, un Consorzio è stato creato a fine gennaio.
C’è il Consorzio, ma non ha finora avuto finanziamenti. Sarebbe bene invece che, se attivo, comunicasse quel che fa: quante varianti studia, quante ne intercetta… Sui dati ci vuole la massima trasparenza, devono essere messi a disposizione di tutti, perché tutti li possano studiare. E questo vale per il numero di vaccinazioni somministrate, per le varianti o per i numeri sulla mortalità. Non possono essere un segreto.
Torniamo ai vaccini. Oltre a ReiThera, ieri Rottapharm e Takis hanno annunciato la partenza della sperimentazione sull’uomo del secondo vaccino italiano. Avere due carte in mano sarà sufficiente?
Ben vengano, per carità, saranno senz’altro utili entrambi, anche perché avremo dei siti produttivi nostri. Ma siamo in ritardo, non possiamo concentrarci sulle cose che partono adesso. Dobbiamo stabilire al più presto accordi per avere vaccini già pronti. Bisogna avere le licenze, che possono diventare anche licenze obbligatorie, se necessario.
AstraZeneca si è detta disposta a cedere le licenze di produzione. Che ne pensa?
Anche Moderna ha detto la stessa cosa. Però lo dicono adesso, forse temono che diventi obbligatorio. Comunque va benissimo, l’obiettivo è uno solo: vogliamo i vaccini.
Il trasferimento tecnologico però non sarà facile.
Se sono disponibili a cedere le licenze, possono gestire loro il trasferimento tecnologico: come producono nei loro paesi, possono produrre lo stesso anche altrove. In Germania, per esempio, sono partiti per tempo perché servivano 4 mesi e oggi hanno uno stabilimento a Marburgo, mentre in Francia hanno Sanofi-Pasteur che produce per Pfizer. Persino in Serbia hanno già vaccinato il 15% della popolazione, utilizzando il vaccino russo, e in Giappone, dove hanno iniziato ieri, vaccineranno tutta la popolazione in tre mesi.
Come è possibile?
Perché hanno impiantato lì uno stabilimento in cui producono i vaccini che servono.
Perché non ci abbiamo pensato prima?
Perché non guardiamo al futuro, siamo sempre a mettere a posto quello che non abbiamo fatto il giorno prima. È una grande carenza del nostro sistema politico: guardare al momento, oltre tutto sempre in ritardo, senza programmare il futuro. Che i vaccini fossero in sviluppo, lo si sapeva da marzo. Perché Israele ha vaccinato quasi tutta la sua popolazione? Perché si è mosso per tempo. Noi invece aspettiamo che tutti ci portino le cose. È una mentalità sbagliata.
Andare a cercare i vaccini è un compito che spetta al governo o all’Aifa?
L’Aifa non ha questo compito, anche se potrebbe essere d’aiuto. Ci vuole un gruppo di esperti, non grandi scienziati, ma persone che conoscono il mondo dei vaccini, che hanno rapporti internazionali, che sanno dove mettere le mani. E dobbiamo chiedere un aiuto alle nostre industrie che si occupano di vaccini.
Il primo passo potrebbe essere quello di stipulare accordi con la Russia per lo Sputnik V, come ha fatto l’Ungheria e come si appresta a fare anche l’Austria?
Ricordiamoci che è necessario aspettare il processo di approvazione e quindi che lo potremo utilizzare solo quando l’Ema lo avrà autorizzato. Però gli accordi si possono fare prima, si possono prenotare le dosi. Altrimenti ci saranno altri paesi, più tempestivi, che lo faranno prima di noi. E chi prenota per primo, chi paga per primo avrà la precedenza.
Draghi sui vaccini ha strigliato la Ue. Ha fatto bene?
Sì, ha l’autorità per farsi sentire, ha fatto bene.
Dovesse dargli un consiglio?
Faccia quello che ha manifestato in quel vertice europeo: più vaccini disponibili e più vaccinazioni. Non dobbiamo solo arrivare all’indipendenza, ma dobbiamo produrli per noi e per i paesi poveri. Non possiamo ignorare che Africa, Sudamerica e paesi a basso reddito non sono in grado di acquistare i vaccini. Viviamo nell’era della globalizzazione: se non vacciniamo in tutto il mondo, le varianti torneranno da noi.
Se non vacciniamo velocemente le varianti potranno avere la meglio?
Certo. In Sudafrica non si può più utilizzare AstraZeneca, perché la variante sudafricana non è sensibile. Finché non ci sarà un’immunità di gregge generalizzata a livello globale, continueremo ad avere la possibilità di varianti che insorgono o che arrivano. E se non sono sensibili ai vaccini attuali, richiederanno la produzione di nuovi sieri.
Che garanzie offrono i due vaccini italiani?
Siamo ancora agli inizi, ci vorrà parecchio tempo, perché bisogna ancora affrontare le tre fasi. Guardiamoci intorno: in giro per il mondo ci sono 60 candidati vaccini già in fase clinica. Certo, bisogna anche pensare di acquistare le apparecchiature necessarie.
Se ci muovessimo adesso saremmo pronti almeno per l’estate?
Sì. E se ci fossimo mossi già a settembre, adesso non saremmo qui a discuterne.
Il Covid costituisce un pesante stress test per il nostro Servizio sanitario nazionale. Lei ha appena dato alle stampe un libro, Il futuro della nostra salute, in cui tratteggia l’Ssn che “dobbiamo sognare”. Che cosa c’è da rivedere?
Il Servizio sanitario nazionale è un modello che va mantenuto, ma col tempo si è un po’ deteriorato e ci sono tante priorità su cui bisogna intervenire. Primo: bisogna sottrarlo alla Pubblica amministrazione, rendendolo un servizio agile, più flessibile, nell’interesse dei malati, non più sottoposto alla pletora di leggi, leggine e circolari ministeriali o regionali. Secondo: deve privilegiare la prevenzione, perché le malattie non piovono dal cielo, siamo noi che ce le procuriamo. Basti pensare che il 50% delle malattie croniche e il 70% dei tumori sono evitabili. Terzo: bisogna fare in modo che ci sia una reale medicina del territorio, è impensabile che un singolo medico abbia 1.500 assistiti, perciò vanno incentivate le forme di aggregazione come i Centri della salute, così non si affollare pronto soccorso e ospedali. Quarto: bisogna rilanciare la ricerca indipendente. Quinto: occorre fare formazione adeguata e indipendente, creando una Scuola superiore di sanità in cui formare i dirigenti che andranno a governare le attività del Ssn. Sesto: avere regole chiare e omogenee per tutto il territorio nazionale, che poi le Regioni adatteranno operativamente ai problemi di tutti i giorni.
(Marco Biscella)