In Italia siamo a circa 300mila prime dosi al giorno, rispetto alle 330-340mila di inizio maggio. Non è bene rispetto a standard nei quali avevamo cominciato a sperare, anzi la cifra è nettamente inferiore al milione di dosi ipotizzate a un certo punto della campagna vaccinale, ma non è neppure male se si considera che pochi altri paesi al mondo riescono a fare meglio. Infatti, a questi ritmi, ogni tre giorni immunizziamo quasi un milione di italiani in più. Ci sono comunque motivi per sperare di riuscire a fare di più.



Al 22 maggio 2021, hanno ricevuto una prima dose di vaccino quasi 21 milioni di italiani, circa il 35% della popolazione. Di questi, i pienamente vaccinati sono oltre 9 milioni. È notorio che, ai fini dell’abbattimento della curva di contagio, e quindi del numero di morti per Covid, non è il numero di punture che conta, bensì quante persone hanno ricevuto quella prima dose che, almeno per un certo tempo, le rende immuni. Quanto efficacemente e per quanto tempo i vaccinati siano immuni non si sa di preciso: finora ci sono solo ipotesi delle case farmaceutiche, che sono veritiere quanto lo è la pubblicità di un qualsiasi prodotto, oltre a qualche studio indipendente su pochi e localizzati casi. Tuttavia, quel 35% di vaccinati è un numero importante per la salute collettiva.



Nell’Unione Europea, tra i paesi con almeno 10 milioni di abitanti (Figura 1), solo la Germania (40%) e il Belgio (37%) stanno facendo meglio di noi. L’Italia procede quasi in parallelo con la Spagna (36%), il Portogallo (35%), l’Olanda (34%) e la Francia (34%). Al di fuori dell’Ue, tra i paesi che hanno più di 10 milioni di abitanti, solo altri quattro – il Regno Unito (56%), il Cile (51%), il Canada (51%) e gli Stati Uniti (49%) – hanno percentuali di primo-vaccinati superiori all’Italia. Insomma, quando s’impegna, l’Italia è capace di vincere le sfide importanti.

Figura 1. Percentuale di popolazione a cui è stata inoculata almeno una dose di vaccino anti-Covid nei paesi con almeno 10 milioni di abitanti, al 22 maggio 2021 (fonte: https://ourworldindata.org/covid-vaccinations)



Ora è necessario fare ragionamenti su scala più vasta. Stiamo andando verso l’estate e il Bel Paese deve ritornare ad essere un desiderio per milioni di turisti. In primis, è necessario che chi pensa all’Italia come destinazione di vacanze associ all’appetibilità dei luoghi la sicurezza del sostarvi. È impossibile raggiungere l’immunità di gregge prima che arrivino i turisti, ma è importante che la sicurezza che solo le vaccinazioni possono dare superi quella dei paesi turisticamente concorrenti. La migliore garanzia di sicurezza è data da un alto tasso di vaccinazioni della popolazione. Se verso la metà di giugno superiamo il 50% e in luglio rasentiamo o superiamo il 60%, l’Italia potrà vantarsi di essere tra i paesi più sicuri al mondo, almeno per quanto riguarda il rischio associato al virus.

Il generale Figliuolo e il suo staff stanno procedendo nella vaccinazione a passo costante, con risultato costante. Coloro che ammirano gli alpini possono trovare analogie tra il procedere della campagna vaccinale e il modo di essere degli alpini. Sia nelle loro prassi (il loro motto è “tasi e tira” che significa “taci e tira”, ma va immaginato con, sullo sfondo, un gruppo di alpini che, nella neve fino all’inguine, spinge un affusto di cannone in alta montagna), sia nel loro modo di camminare, a passi corti e costanti.

Tuttavia, ora che, avendo vaccinato quasi tutti i vecchi, abbiamo iniziato con le età di mezzo e dovremo prima o poi vaccinare i giovani, ci accorgiamo che le cose stanno diventando più difficili. Di solito, non è facile convincere i vecchi, ma l’alta mortalità associata ai problemi di quell’età è stata sufficiente a convincerli a vaccinarsi più di qualsiasi pubblicità. C’è ancora una piccola percentuale di vecchi da convincere, ma non c’è bisogno che ci pensi lo Stato, saranno i loro famigliari più svelti di pensiero a convincerli.

Da convincere in modo differenziato sono, invece, le persone in età da lavoro e i giovani. Per età da lavoro intendiamo le persone dai 25 ai 65 anni, la spina dorsale produttiva del paese. Una volta liberate dalle catene dell’emergenza, queste persone dovranno dedicarsi al lavoro con più lena di prima, però vorranno anche andare in vacanza, recuperando in parte l’anno perduto. Non sarà difficile convincerle a vaccinarsi, basta responsabilizzarle rispetto al ruolo pivotale che svolgono nella famiglia e nella società civile. La parola chiave è, dunque, “responsabilità”. Si potranno vaccinare con tanta maggiore frequenza e tanto più in fretta quanto più si andrà loro incontro con il vaccino, nei posti di lavoro, nelle scuole, nei luoghi di vacanza e negli ambulatori di quartiere, piuttosto che negli enormi hub dove si sta in lunghe code per essere vaccinati.

I giovani sopra e sotto i 18 anni si sentono immortali e li sfiora appena il timore che il virus abbia effetti su di loro. Le statistiche, tra l’altro, sono dalla loro parte, perché la mortalità – che, tutto sommato, è ciò che si vuole realmente evitare con le misure sanitarie di contenimento – è minima tra i contagiati. D’altra parte, il tipo di vita dei giovani rende esponenziale la loro probabilità di contagio e le argomentazioni “da adulti” hanno su loro scarsa presa. Per convincerli, si dovrà ricorrere ai riti e ai miti giovanili: la solidarietà tra pari, la vaccinazione come fenomeno di gruppo e l’esempio dei loro influencer. Ovviamente, anche il divieto, se non vaccinati, di frequentare i luoghi in cui esercitano i loro riti di massa è un ottimo deterrente.

Per i bambini, il problema è ancor più diverso. Infatti, per ora, non ci sono vaccini specifici. Fino ad oggi, è stato sperimentato solo un vaccino per 12-15-enni, ma sotto queste età non c’è nulla di pronto. Quindi, aspettiamo. Una particolarità: la vaccinazione dei giovani è più cruciale nei paesi in cui questi costituiscono una quota rilevante della popolazione, tale da non permettere il raggiungimento dell’immunità di gregge.

Questo è il caso di Israele, che ha già vaccinato quasi tutte le persone sopra una certa età, tanto da aver fulmineamente raggiunto il 63% di prime dosi, la quota più alta nel mondo. È, però, fermo a questa quota da molte settimane (Figura 1) perché non sono rimasti che pochi adulti da vaccinare, mentre quasi tutti i non vaccinati sono minori sotto i 16 anni, i quali rappresentano circa un terzo della popolazione. Quindi, il paese più volonteroso e convinto in merito alla vaccinazione non riuscirà a raggiungere, se non cambiano le condizioni di contorno, il livello del 70%, detto “immunità di gregge”. Non occorre essere epidemiologi per capire che l’immunità in Israele è già stata raggiunta, come dimostrano le statistiche su contagi e morti, e che il parametro del 70% è una constatazione storica più che uno standard scientifico applicabile ad ogni caso.

Se dovessimo confrontare la situazione italiana con quella di un altro paese che è avanti a noi nell’abbattimento del rischio derivante dal virus, dovremmo confrontarci con il Regno Unito, non con Israele. Il Regno Unito ha quote di popolazione giovane e ha patito livelli d’infezione simili a quelle dell’Italia. È stato veloce nel capire l’importanza di una rapida vaccinazione ed è arrivato al 56% di prime dosi, avendo, come noi, prima vaccinato la popolazione anziana e poi avendo aperto a quella sotto i 60 anni. Sta ora progredendo nella vaccinazione delle età di mezzo (negli ultimi 10 giorni ha vaccinato un altro 2,9% della popolazione residente) e ha abbattuto il rischio di morte per Covid a valori prossimi allo zero. L’esperienza del Regno Unito insegna che:

a) la velocità è la prima determinante dell’efficacia della vaccinazione;

b) le età di mezzo vanno coinvolte tutte assieme nell’esperienza vaccinale, in modo da sfruttare l’effetto psicologico di un fenomeno di massa percepito come positivo;

c) le persone nelle età di mezzo sono meno pronte, rispetto a quelle più anziane, nel porgere il braccio per la puntura;

d) gli effetti positivi della vaccinazione si manifestano sulla popolazione anche molto prima di quota 60%.

Il nostro excursus vuole essere di qualche aiuto anche per chi sta lavorando nella vaccinazione in Italia. Si consideri, dunque, la possibilità di procedere con rapidità nella somministrazione di prime dosi, puntando sul senso di responsabilità della popolazione in età da lavoro, ma facendo ogni cosa possibile per agevolare la somministrazione dei vaccini nei luoghi e nei tempi frequentati da questa parte della popolazione. Ai giovani si penserà appena dopo, anche se un’adeguata “pubblicità progresso” del tipo su detto potrebbe anticipare il consenso giovanile.

Un’ultima notazione: non si riesce a capire perché non si avvia da subito una massiccia campagna vaccinale nelle scuole, sia sugli studenti che sul personale. Ci sono tutte le premesse per una rapida e massiva vaccinazione. C’è il tempo materiale per fare due dosi prima dell’estate. C’è la pratica possibilità di farlo con un massiccio consenso collettivo. C’è la possibilità di risparmiare un’enorme somma: invece di platonici tamponi (tra l’altro, obbligatori), si possono fare efficaci vaccini. Si pensi che ogni tampone (e gli studenti e il personale della scuola dovranno farne più d’uno) costa alla comunità almeno come 15 iniezioni di AstraZeneca e almeno due-tre delle più costose Pfizer-BioNTech e Moderna-Niaid. Dispiace per chi produce e fa tamponi, ma la salute deve venire prima di tutto.

Infine, la storia recente insegna che proteggere la popolazione dal virus è tutt’altro che semplice. Il ritardo causato dal pasticcio delle forniture dei vaccini ha insegnato che non bastano le buone intenzioni, ma che bisogna essere efficaci. Inoltre, è stato sufficiente il passo falso della insulsa comunicazione su AstraZeneca per retrocedere, e non di poco, rispetto ad una capacità di vaccinare che sembrava crescente e inarrestabile in ogni paese. Certi esperti e governanti, europei e non solo, e certi comunicatori si sono comportati con le statistiche epidemiologiche come se si trattasse di graffiti preistorici in una grotta neolitica.

Purtroppo, è per ora difficile obbligare i governanti a istruirsi prima di esprimersi su cose che non sanno, ma imporre a certi comunicatori di entrare nel merito di ciò che dicono quando aprono bocca è un dovere morale nei confronti della categoria. I governanti si possono mandare a casa con le elezioni, ma esperti e comunicatori non sono elettivi e ce li ritroveremo con lo stesso livello di consapevolezza anche alla prossima epidemia. Su questi temi dovrebbe vigilare l’Ordine dei comunicatori. E non è escluso che un giorno si arrivi a fare esami di consapevolezza dei problemi anche a chi governa.

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