Non deve sorprendere la notizia che Francesco Schiavone, già capo del clan dei casalesi, detto “Sandokan”, sia stato nuovamente sottoposto al regime speciale dell’art. 41 bis e che quindi dovrà continuare a scontare la pena dell’ergastolo che gli era stata comminata.

Non è il primo pentito che non viene creduto.



Secondo le indiscrezioni giornalistiche le rivelazioni di Schiavone agli inquirenti non sarebbero state convincenti. Insomma non avrebbe detto tutto quello che sa o avrebbe riferito fatti non veri.

In un percorso collaborativo sono decisivi i primi sei mesi. Come recita l’art. 16 quater della legge 8/1991, “la persona che ha manifestato la volontà di collaborare rende al procuratore della Repubblica, entro il termine di centottanta giorni dalla suddetta manifestazione di volontà, tutte le notizie in suo possesso utili alla ricostruzione dei fatti e delle circostanze sui quali è interrogato nonché degli altri fatti di maggior gravità ed allarme sociale di cui è a conoscenza oltre che alla individuazione e cattura dei loro autori ed altresì le informazioni necessarie perché possa procedersi alla individuazione, al sequestro e confisca del denaro…”.



Viene così stretto un patto tra imputato e inquirenti. Chi intende collaborare deve dire tutto quello che sa in relazione ai a fatti criminosi commessi da lui stesso e dai suoi complici, senza nulla omettere, perché non è ammissibile che possa scegliere chi accusare e chi invece graziare, quali fatti disvelare e su quali mantenere riserbo. Non esistono amici da salvare o parenti da proteggere. Insomma si deve dire tutto quello che si sa. E occorre farlo subito e in fretta, fin dai primi interrogatori, quelli che costituiscono il cosiddetto “verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione”. Questo per favorire la genuinità della prova ed evitare il fenomeno delle “dichiarazioni a rate”. Tutto quanto riferito oltre il termine di 180 giorni dall’inizio della collaborazione è processualmente inutilizzabile.



In cambio di questa condotta collaborativa vengono concessi notevoli sconti di pena se il processo è ancora in corso, mentre in caso di condanne ormai definitive viene consentito l’accesso ai benefici della legge penitenziaria in tempi brevi e anche laddove la gravità dei reati normalmente non lo consentirebbe. Grandi vantaggi, quindi, ma in cambio devono arrivare rivelazioni importanti e sincere.

Non viene chiesto un pentimento morale al collaborante. Non si può escludere che possano esserci stati anche ravvedimenti sinceri, caratterizzati da un percorso interiore di rivisitazione degli errori commessi, ma nella grande maggioranza dei casi ciò che convince un soggetto a collaborare è la convenienza, la prospettiva di ottenere dei vantaggi processuali ed evitare il carcere.

Ma se la collaborazione si appalesa carente, se gli inquirenti capiscono che il collaborante sceglie cosa dire e cosa non dire o addirittura racconta il falso, il patto che viene stretto all’inizio del percorso si rompe e “il pentito” torna in carcere. Niente sconti e niente benefici.

Ed a questo punto la detenzione sarà ancora più insopportabile.

Succede spesso, le indiscrezioni giornalistiche dicono che è successo anche in questo caso.

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