Il ministro della Salute, Orazio Schillaci, ha detto la sua sulla problematica relativa al sovraffollamento dei pronto soccorso in Italia. Secondo il titolare del dicastero capitolino sarebbe imputabile a un ricorso eccessivo ai DEA da parte degli italiani. Queste le sue dichiarazioni, riportate da “Il Messaggero”: “Oggi dal 60 all’80 per cento di coloro che vanno in pronto soccorso, vi si recano in modo inappropriato. Per evitarlo, dobbiamo offrire una sanità territoriale, come emerso in pandemia”.



Schillaci, in tal senso, ha garantito che a livello governativo “stiamo lavorando su questo, anche con i fondi del Pnrr, che dobbiamo utilizzare in modo corretto. Ma la vera trasformazione sarà la digitalizzazione della sanità, che ci permetterà anche di superare le tante disuguaglianze che ci sono oggi nel servizio sanitario”. Insomma, le contromosse per arginare l’emergenza pronto soccorso nello Stivale non mancano. Ma davvero si tratta di emergenza? I numeri si esprimono in questo senso: nel 2021 vi sono stati 14,5 milioni di accessi. Fra questi, i codici rossi sono stati  366mila, i gialli 4,5 milioni, i bianchi e i verdi rispettivamente 1,8 e 7,8 milioni. Sostanzialmente, prendendo questi ultimi due numeri in esame, 10 milioni di cittadini (o poco meno) che avrebbero potuto rivolgersi ai rispettivi medici di famiglia. Se il sistema di questi ultimi funzionasse, però…



SCHILLACI DENUNCIA IL SOVRAFFOLLAMENTO DEI PRONTO SOCCORSO: SI PUNTERÀ SU CASE E OSPEDALI DI COMUNITÀ

In effetti, i medici di base sono in difficoltà, poiché contano un numero elevato di assistiti e faticano a occuparsi di tutti. Ne deriva che, quando un cittadino ha un problema, l’unico luogo in cui chiedere aiuto diviene il pronto soccorso. Per questo il ministro Schillaci, scrive “Il Messaggero”, sta puntando molto sulla “realizzazione in tutta
Italia delle case di comunità con i fondi del Pnrr, al cui interno il paziente deve trovare un medico o un infermiere che risponde a richieste non urgenti. L’altro strumento deve essere quello dell’ospedale di comunità, già funzionante in alcune regioni, in alcuni casi a gestione infermieristica, che deve aiutare a liberare i posti letto dei reparti”.



Anche Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, si è espresso in questo senso, asserendo che il domani della sanità italiana deve essere quello delle case di comunità, chiamate in precedenza case della salute, “che però in gran parte del territorio, soprattutto nel Centro-Sud, non sono mai decollate. Ma resta ancora da sciogliere il ruolo che a loro interno avranno i medici di base, quello è un problema ancora irrisolto”.