Se qualcuno pensa che Vincenzo De Luca sia l’angelo sacrificale da offrire agli dei delle alleanze del tempio del Pd, vuole dire che ci divertiremo. In primo luogo è una vittima ben più corpulenta politicamente di un agnello. Minimo un ariete, se non un toro. Ed in più ama essere se stesso e combattere contro chi lo vede morto da decenni. Ha capito bene che lui è l’ultimo arnese della vecchia guardia da scalzare e che il suo pensionamento non è altro che una rottamazione senza analisi di merito.
Al Nazareno vogliono il suo posto per poter partire con una nuova fase politica, operazione che però ad oggi stenta. Il Pd nazionale ha perso ad oggi quasi tutte le regioni in cui ha conteso alla destra la leadership. Restano Umbra ed Emilia-Romagna, ma perderle vorrebbero dire chiudere il partito. La Campania è invece la pietra di scambio coi 5 Stelle sin dalla candidatura di Manfredi, sulla base del patto fatto dalla Schlein con Fico ed il sindaco in una pizzeria a due passi dal Comune circa un anno fa. All’ex grillino la regione, o il comune, se Manfredi facesse il salto, in cambio di un appoggio suo e dei suoi alla grande alleanza tra M5s e Pd.
Tutto perfetto, se non ci fosse il problema De Luca. Il quale non ha intenzione di passare per un pensionando riottoso. Lo ha spiegato ai suoi consiglieri, compresi quelli del Pd, che a rischiare, più che lui, sono loro. Una volta partita la giostra della rottamazione non troverebbero posti in lista o ruoli di livello e verrebbero messi da parte come già accade al Comune di Napoli, dove il Pd conta meno di niente. Il ragionamento di De Luca è semplice: vogliono far fuori me per cacciare voi. E quindi che facciamo?, è stata la domanda.
La risposta è il via libera al terzo mandato. Che serve a De Luca, certo, ma anche agli uscenti. Se infatti avessero tagliato le gambe a De Luca, rendendolo incandidabile, non avrebbero avuto alcun potere di trattativa con Roma sui loro ruoli. Tenere De Luca in campo impone di aprire ragionamenti con i consiglieri eletti per convincerli, politicamente, ad essere della partita sul lato del Pd romano non a favore del salernitano. Li mette in condizione di poter essere utile agli uni ed agli altri e quindi diventare loro, in parte, quelli che con cui discutere. Senza De Luca, senza un candidato presidente credibile e che li apprezza (Fico i vecchi consiglieri li considera tutti da sbattere via), senza ruoli interni, visto che il Pd è commissariato da due anni in Campania, sarebbero già fuori, senza prospettive. Perciò tenere in vita la candidabilità di De Luca li mette al riparo da un gesto masochistico che, come consiglieri, li avrebbe messi in un angolo da cui era impossibile uscire.
Ora la vicenda non è ancora conclusa, ma appare davvero poco probabile che il vecchio toro salernitano mostri il collo per farsi sgozzare in pubblico per la gloria della Schlein. Anzi, rivendica il suo buon governo, la sua esperienza ed anche al sua identità politica di militante del Pd da tanti decenni. Come risolvere, quindi, questo rebus?
La soluzione è la guerra. De Luca andrà diritto con chi ci sta. E lotterà, forte della sua personalità e del fatto di non avere nulla da perdere. Il campo largo diventerà strettino, in una competizione in cui conta chi ha preferenze. O si imbarcherà i vari caicchi o le liste saranno esangui a dir poco. E in questa lotta tra vecchi e nuovi, tra romani e campani, per dirla alla De Luca, il rischio è che nessuno vinca e così finisca per vincere lui, il vecchio toro, o caprone per altri, che non molla. E che a furia di tirar calci lascerà un segno. Soprattutto a chi vorrebbe cucinarselo senza averlo prima fatto fuori.
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