Durante questo 2010 le Nazioni Unite hanno promosso l’Anno Internazionale per la Biodiversità con l’obbiettivo di riaffermare i valori della Convenzione Internazionale della Diversità Biologica e aumentare la consapevolezza dei governi e del grande pubblico sull’importanza della diversità biologica per la vita sulla Terra. Almeno in Italia, l’iniziativa sembra passare abbastanza sotto silenzio sia da parte degli scienziati che dei politici e dei mezzi di informazione.



Almeno io, comunque, ho cominciato l’anno nel migliore dei modi con un periodo di lavoro nel Parco Marino di Bunaken, un piccolo arcipelago situato all’estremità della penisola settentrionale indonesiana di Celebes (ne ho riferito in un “Diario di viaggio” su Emmeciquadro, nel numero ora in uscita). Le scogliere coralline di questa zona sono talmente ricche e diversificate che le immersioni subacquee che vi si possono condurre colpiscono in modo decisamente fisico, più che dall’idea, dall’esperienza della biodiversità.



Un esempio particolarmente eclatante dei livelli di diversità biologica di quest’area è stata la scoperta, una decina di anni fa, della seconda specie di celacanto, rinvenuta da un giovane biologo marino americano su una bancarella del mercato del pesce di Manado, il principale centro dell’area. Lo studio morfologico dell’esemplare, condotto assieme all’analisi genetica, permise in breve tempo di identificare il pesce chiamato, in onore della città di Manado, Latimeria menadoensis.

La straordinaria ricchezza specifica di particolari zone, come l’arcipelago di Bunaken, ci mostra come, a livello mondiale, la biodiversità non sia uniformemente distribuita ma tende a raggrupparsi in zone circoscritte chiamate hot spot. Il principale punto caldo della biodiversità marina mondiale è il cosiddetto “triangolo dei coralli” che ha come vertici le Filippine, l’arcipelago Indonesiano e la Nuova Guinea: il Parco Marino di Bunaken si trova esattamente nel centro geometrico di quest’area.



Cosa ha determinato questa inattesa, puntiforme, distribuzione della biodiversità? Certo, le condizioni ambientali e la storia geologica hanno, come vedremo, avuto un ruolo determinante ma io penso che la stretta coesistenza di diverse specie sia in grado di produrre, tramite i più vari fenomeni di interazione, nuove possibilità per l’evoluzione in una continua auto-catalisi che porta alla formazione di sempre più elevati livelli di biodiversità.

A proposito di storia geologica è interessante notare che l’arcipelago di Bunaken si trova sul lato orientale della celebre linea di Wallace, dedicata al fondatore della moderna biogeografia. Durante la sua lunga permanenza nell’arcipelago Indonesiano Wallace si rese conto che una linea invisibile divideva due faune assolutamente diverse. Ad esempio i marsupiali sono comuni e diversificati in Australia e Nuova Zelanda, si trovano in Nuova Guinea, Molucche e Celebes ma sono completamente assenti dalla restante parte delle isole indonesiane così come dall’intero continente asiatico.

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Una distribuzione esattamente opposta presentano i grandi felini come la tigre o il leopardo presenti in tutta l’Asia dall’india alla Siberia, comuni, almeno in tempi recenti a Sumatra, Giava e Borneo, totalmente assenti, anche allo stato fossile a Celebes, Nuova Guinea e Australia.

 

La differenza tra la fauna australiana e quella asiatica, divise dalla linea di Wallace, dipende da un complesso movimento di placche tettoniche di diversa origine che hanno, dato origine all’arcipelago indonesiano. Questa vicenda ci induce a riflettere su come la biodiversità non sia un’immagine statica ma un fenomeno in continuo divenire sul quale le vicende dell’ambiente hanno giocato un ruolo determinante. Quello che oggi possiamo ammirare e studiare è un momento di una lunga, continua serie di contingenze irripetibili nelle quali l’evoluzione biologica e l’evoluzione della Terra si sono condizionate vicendevolmente.

 

Lo studio della biodiversità indonesiana non offre solo spunti per capire il passato della vita sulla Terra ma fornisce anche idee per immaginare scenari futuri. Particolarmente interessante è stata l’esplorazione che abbiamo condotto al vulcano sottomarino di Mahengetang, nell’aricipelago delle Sanghie. Le emanazioni termali di questo edificio vulcanico subacqueo riducono il pH, normalmente leggermente alcalino, dell’acqua di mare tanto da determinare microcondizioni ambientali assai peculiari nella quali, ad esempio, la deposizione dei carbonati negli scheletri di alcuni organismi come coralli o molluschi, è resa molto difficoltosa. Qualcosa di simile potrebbe accadere se l’incremento di anidride carbonica atmosferica forse in grado di determinare un’acidificazione oceanica a livello planetario.

 

La nostra comprensione degli effetti dell’acidificazione sugli ecosistemi marini è attualmente molto limitata e tutte le ricerche sono state condotte in laboratorio e solo per brevi periodi di tempo. I fenomeni vulcanici sottomarini sono una straordinaria possibilità di studiare gli incrementi di acidità delle acque in ambiente naturale. Il passaggio da pochi e miniaturizzati organismi calcificati nella zona delle emissioni termali alla più rigogliosa scogliera corallina a poche decine di metri di distanza potrebbe rappresentare un modello straordinario per la previsione di possibili scenari legati ad ipotetici cambiamenti a livello globale.

 

La conoscenza della biodiversità non è solo il tema di un’affascinante ricerca di base ma presenta anche significativi aspetti applicativi. Durante la nostra spedizione abbiamo collaborato con un gruppo di chimici organici dell’Università Federico II specializzati nella ricerca di sostanze naturali di interesse farmacologico. In particolare è stato approfondito lo studio della plakortina, un metabolita secondario della spugna marina Plakortis simplex dotatodi un potente effetto anti-malarico che promette lo sviluppo di una nuova classe di farmaci molto più attivi e molto meno tossici di quelli tradizionalmente usati contro il plasmodio, storico flagello dell’umanità.

 

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La ricerca di sostanze naturali, dotate di attività farmacologiche è, attualmente una delle più promettenti applicazioni pratiche della biodiversità. Gli oceani sono la sorgente di numerosi composti naturali prodotti e accumulati sia da microrganismi che da invertebrati come spugne, cnidari, briozoi, molluschi, tunicati ecc. Si suppone che questi prodotti naturali o metaboliti secondari siano il risultato di pressioni evolutive come la predazione o la competizione per lo spazio o per le risorse trofiche. Queste forze hanno plasmato composti strutturalmente diversificati e stereochimicamente complessi con specifiche e pronunciate attività biologiche molti dei quali appartenenti a nuovi gruppi chimici mai osservati in ambiente terrestre.

 

L’Indonesia è una delle tigri asiatiche, il cui sviluppo urbano ed economico è impressionante e disordinato. Aggirandosi tra i centri commerciali di dieci piani di Jakarta, nei quali il made in Italy ha un ruolo di assoluto rilievo, nulla sembra più distante della barriera corallina e della linea di Wallace e la riflessione sulla convivenza tra biodiversità e sviluppo umano si impone in cerca di una soluzione che sembra sempre più distante.

 

Secondo me l’unica possibilità passa attraverso la formazione di un gruppo di scienziati locali in grado di conoscere, gestire e valorizzare la straordinaria ricchezza di questo paese trasformandola in una fonte di reddito per le popolazioni costiere. Sembra poco ma l’educazione di una nuova generazione di ricercatori, nel lavoro dei quali fascino, studio e rispetto siano direttamente collegati, può essere il germe di diverse modalità di sviluppo attraverso le quali l’uomo salvando il proprio ambiente possa salvare se stesso.