La scienza, almeno quella che più appare nella comunicazione pubblica, lancia spesso messaggi contrastanti. Così, mentre da un lato troviamo segnali di nuove entusiasmanti possibilità di prolungare la nostra vita individuale in una corsa verso l’immortalità, dall’altro ecco delinearsi il quadro di una catastrofe cosmica finale che, secondo alcune analisi scientifiche, sembrerebbe più vicina di quanto si pensasse.
E proprio a partire da quest’ultima suggestione è stato impostato il Festival delle Scienze di Roma 2011, che inizierà domani e vedrà sfilare all’Auditorium Parco della Musica grandi nomi della ricerca scientifica italiana e internazionale (ma anche letterati, filosofi e storici) per affrontare il tema dalla prospettiva della scienza più avanzata e cercar di “capire che cosa sappiamo davvero del tramonto finale che ci attende”.
Non si tratterà di fantascienza, anche se in certe speculazioni il confine è difficilmente rispettato, ma proprio di discipline scientifiche che inevitabilmente vanno a toccare il tema del futuro e della possibile fine. È inevitabile infatti che cosmologia, geologia e biologia, avendo nel “tempo” un loro parametro fondamentale, si occupino di tutto quello che è accaduto e potrà accadere nello svolgersi progressivo e continuativo dei giorni, dei secoli, dei millenni e degli eoni (insiemi di ere).
La cosmologia non può fare a meno di collocare le sue rappresentazioni nel reticolo dello spazio-tempo codificato dalla relatività generale di Einstein; spazio-tempo che ha preso avvio dalla singolarità iniziale del Big Bang per poi espandersi, a ritmi diversi; ma che potrebbe anche andare incontro a una contrazione per poi implodere in un colossale Big Crunch. È una visione che, per la parte del passato, ha avuto numerosi riscontri sperimentali ma che per il futuro deve fare i conti con le più recenti osservazioni che hanno misurato un’accelerazione dell’espansione e suggeriscono l’entrata in campo di una, tuttora non spiegata, energia oscura.
La geologia è il regno della catastrofi, piccole o grandi, che hanno scandito la storia di una Terra dinamica e spesso turbolenta, determinandone il volto in tutta la sua spettacolarità ma originando, ancor oggi, situazioni imprevedibili e drammatiche.
La biologia, nel ripercorre le tappe dell’evoluzione dei viventi, si è imbattuta più volte nei processi di estinzione delle specie, avvenuti per cause interne o esterne e spesso ancora da decifrare. Accanto a questi ha potuto cogliere momenti di esuberanza, con un boom di proliferazione di forme di vita: come la celebre esplosione Cambriana, avvenuta circa 530 milioni di anni fa, che in tempi geologicamente brevi, ha portato sul Pianeta un numero enorme di nuove specie.
Certo, c’è modo e modo di studiare i fenomeni dilatandoli su tutto l’arco temporale prevedibile. Si possono indicare con chiarezza i criteri di scelta dei vari modelli e precisare i limiti delle simulazioni. Oppure si possono accentuare le descrizioni dei probabili effetti di certi meccanismi, che sono solo congetture teoriche, e scivolare senza accorgersi verso una cronaca degli eventi futuri “come se” fossero scontate le ipotesi assunte. È il filone catastrofista, che è sempre stato presente nella scienza ma soprattutto nella sua divulgazione, rinvigorito da quando si sono avute le prove documentate di eventi catastrofici su scala planetaria effettivamente avvenuti nel passato; o da quando si possono registrare i giganteschi fenomeni cosmologici che portano intere galassie, con le loro centinaia di miliardi di stelle, a scontrarsi; o stelle massicce a collassare trasformandosi in enormi e voraci buchi neri.
Il catastrofismo tende a generalizzare questi scenari, contraendo tempi e spazi; col risultato di portare tutta l’attenzione sulla descrizione degli eventi finali ma di svuotare la centralità delle domande che la possibilità di tali eventi implica.
Che poi, a pensarci bene, non appaiono molto giustificati la sorpresa e il clamore per la previsione di immani catastrofi e che il mondo debba finire. Come osserva il fisico e pastore anglicano John Polkinghorne “oggi ci rendiamo ben conto che la mortalità è un tratto dell’intero Universo …. Bisogna prendere estremamente sul serio le implicazioni di questa predizione circa la futilità del cosmo: nella sfida che essa presenta all’idea stessa dell’esistenza di Dio, non la credo poi molto diversa dalla ben più certa asserzione della mortalità dei singoli individui umani”.
Questa sfida, nella prossime giornate si arricchirà probabilmente più di interrogativi che di risposte; sono gli interrogativi che costellano il programma e che gli organizzatori hanno posto come filo conduttore per conversazioni, dibattiti e spettacoli. “Che cosa sappiamo realmente della fine della specie umana e del pianeta che la ospita? È vicina o lontana da noi? Stiamo sottovalutando o sopravvalutando le potenziali cause di un’estinzione e di una catastrofe? Se fosse davvero vicina, sapremmo prevederlo? E soprattutto, quanto dovremmo preoccuparci? Quali sono i rischi che corriamo e che cosa ci dice la scienza al riguardo? Abbiamo modelli predittivi affidabili? Quali e quante sono le probabilità che una catastrofe fatale si realizzi?”
Resta da vedere se delle risposte puramente “scientifiche”, ammesso che si trovino, possano esaurire le aspettative profonde che hanno innescato le domande. Per questo forse, più che mettere a tema “la” fine del mondo, ci si dovrebbe interrogare circa “il” fine di tutto. Una risposta consistente e convincente a questa domanda è necessaria per affrontare il futuro, pacifico o catastrofico che sia. Tenendo presente che, come osserva sempre Polkinghorne, “nello spirito umano abbiamo una profonda intuizione della speranza, un’intuizione che si rivolta contro nichilistiche conclusioni”.