Una lunga evoluzione caratterizza l’uso e l’invenzione dei farmaci. Si parte dall’antichità, dove i farmaci coincidevano con particolari vegetali. Questa impostazione ebbe lunga vita; solo all’inizio dell’Ottocento nacque la farmacologia chimica che permetteva di creare dei farmaci sintetici.
Nel Novecento compaiono farmaci in grado di debellare le infezioni: prima i sulfamidici, poi gli antibiotici. Un’autentica «esplosione farmacoterapica» avviene nel secondo dopoguerra, creando anche la necessità di garantire l’assenza di gravi ef­fetti collaterali e la presenza di una reale efficacia terapeutica dei medicinali in commer­cio. Infine in tempi recenti, nascono la nanofarmacologia e la tecnologia a mRNA.



 

Per attenuare i disturbi di una semplice influenza o per vincere una più complessa broncopolmonite, per risolvere un fastidioso mal di testa o per combattere la progressione dell’artrite, per superare il dolore di un trauma e per far tornare entro valori normali la pressione arteriosa, i livelli di colesterolo o il tasso di glicemia oggi abbiamo a disposizione strumenti efficaci e abbastanza sicuri: i farmaci. Il lungo cammino che ha portato alla nascita dei farmaci che noi oggi utilizziamo è stato avventuroso e complesso, ricco di affascinanti conquiste e di cocenti delusioni.



 

Dalle pratiche magiche ai farmaci vegetali

La ricerca di rimedi efficaci contro il dolore e le malattie è sempre stata una preoccupazione costante dell’uomo, sin dall’epoca preistorica. Il riscontro casuale delle proprietà benefiche di erbe, di acque sorgive, di cibi ne legittimavano l’uso come «rimedio curativo». L’azione terapeutica veniva poi potenziata con il ricorso a pratiche magico-religiose, in grado di facilitare la guarigione scacciando dal corpo del malato lo «spirito cattivo» ritenuto responsabile, secondo la concezione animistica, della malattia.

Olio di ricino, melograno, tannino, oppio, aloe e menta erano parte integrante del comune bagaglio farmacologico degli Egizi, mentre nella medicina greca – dominata dalla «concezione umorale» di Ippocrate (460-377 a.C.) secondo la quale la malattia era causata da un difetto a da un eccesso di uno dei quattro umori presenti nel corpo umano (sangue, flemma, bile gialla e bile nera) – veratro, elleboro nero, belladonna e ruta erano le sostanze più comunemente impiegate per preparare i medicamenti adatti a curare i malati: purganti, narcotici, diaforetici, diuretici ed emetici.



Nei primi secoli dopo Cristo, la medicina classica greca e romana – come elencavano in modo preciso e analitico Dioscoride Pedanio (attivo in Asia minore tra il 40 e il 60 d.C.) e poi Galeno (129-212 d.C.) nelle loro opere mediche – aveva a disposizione un gran numero di sostanze medicamentose: 650 di origine vegetale, 85 di origine animale e 50 di origine minerale.

La fine dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C.) spalancava le porte dell’Europa al Medio Evo e consegnava all’emergente civiltà araba il primato della conoscenza in ambito medico e farmacologico. In ambito terapeutico la cura con le erbe costituiva uno dei cardini della medicina araba. Accanto a questo sapere d’importazione orientale, una preziosa opera di approfondimento delle proprietà medicamentose delle piante medicinali si svolgeva prima nel silenzio dei monasteri e dei conventi e poi nelle chiassose aule delle nascenti università. La medicina monastica conservava e tramandava le conoscenze dell’antica farmacologia vegetale, arricchendola con la scoperta di sempre nuove capacità curative delle erbe coltivate nei «giardini dei semplici». La medicina medioevale e rinascimentale raccoglieva, catalogava e descriveva in eleganti erbari le piante medicinali coltivate negli «orti botanici».

Il Rinascimento, rinnovando la cultura europea, contribuì anche al cambiamento scientifico. In medicina la «rivoluzione» fu operata da Andrea Vesalio (1514-1564), autore del De humani corporis fabrica (1543), un’opera nella quale una visione completamente nuova dell’anatomia umana divenne la chiave per aprire le porte a una concezione rinnovata di tutta la medicina. In campo farmacologico una rivoluzione analoga venne effettuata da Paracelso (1493-1541) che contrappose alla concezione terapeutica ippocratico-galenica contraria contrariis curantur (i mali si curano con i loro contrari) l’aforisma similia similibus curantur (i simili curano i simili), col quale giustificava l’uso generoso del laudano (tintura d’oppio) per il dolore o del mercurio per la sifilide. Egli proponeva una terapia protochimica, basata sulla trasformazione alchemica dei metalli, piuttosto che la semplice cura centrata sui rimedi vegetali: una farmacologia di «rottura» e di «contestazione» nei confronti del passato.

 

La nascita della farmacologia chimica

Una contestazione analoga caratterizzò, nei due secoli successivi, la concezione puramente «meccanica» degli eventi morbosi, aprendo le porte ad una visione più «chimica» dei fenomeni patologici, premessa fondamentale per la nascita di una farmacologia razionale (chimica e non più solo alchemica) e sperimentale (verificata e non più solo empirica) dei rimedi curativi. Una farmacologia che – come la medicina – fu profondamente rinnovata nell’Ottocento grazie soprattutto alle concezioni originali di tre geniali scienziati: la «medicina sperimentale» di Claude Bernard (1813-1878), la «teoria dei germi» di Louis Pasteur (1822-1895) e la «patologia cellulare» di Rudolf Virchow (1821-1902).

 

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Vittorio A. Sironi
(Docente di Storia della Medicina, della Sanità e di Antropologia medica – Università di Milano-Bicocca)

 

© Pubblicato sul n° 82 di Emmeciquadro

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