Una vicenda umana tragica quella di Nikolaj Vavilov, conclusa con la morte in un gulag, accusato di tradimento perché sosteneva la genetica mendeliana contro il lamarckismo di Lysenko che sembrava meglio corrispondere all’ideologia marxista.
In questo articolo si ripercorrono le ricerche dello scienziato mettendo in luce la sua eredità scientifica.
Le sue idee pionieristiche sulla variabilità genetica delle specie vegetali – oggi si direbbe biodiversità – la necessità di costituire una banca dei semi per conservare questa varietà e utilizzarla per aumentare la produzione alimentare e debellare carestia e fame.
A testimoniare che «
l’eredità di Vavilov è ancora ben viva e operante» sono oggi alcuni progetti internazionali per rendere disponibili a scienziati e agricoltori dati utili a mantenere la biodiversità in tutti i paesi del mondo.



 

Recentemente è stata pubblicata la traduzione italiana di un libro del 2008 di Peter Pringle su Nikolaj Vavilov, Il genio dei semi, libro che è stato recensito nello scorso numero di questa rivista. L’interesse per Vavilov (1887-1943) è indubbiamente legato anche alla tragica vicenda umana di questo scienziato, vicenda che si può considerare il «caso Galilei» del comunismo. Non ripercorrerò qui la storia, ricorderò solo sinteticamente che Vavilov sosteneva la genetica mendeliana e l’evoluzionismo darwiniano, contro il lamarckismo che sembrava invece meglio corrispondere all’ideologia marxista. Aveva inoltre, come è normale per gli scienziati, rapporti con colleghi di tutto il mondo. Questo gli valse – e non solo a lui – l’accusa di tradimento, la reclusione e la morte. Il caso ebbe ripercussioni anche fuori dall’Unione sovietica, nei vari partiti comunisti europei, chiamati a giudicare la scienza in base a criteri ideologici.



 

L’eredità scientifica

Ma al di là della doverosa memoria e discussione su questi drammatici fatti dobbiamo domandarci qual è la vera eredità scientifica di Vavilov a distanza di 80 anni dalla sua morte e a distanza di quasi 100 anni dalla pubblicazione delle sue opere principali. Purtroppo va aggiunto che parte del suo lavoro fu distrutto al momento del suo arresto e quindi conosciamo soltanto in parte la sua opera e le sue idee, e come si sarebbero potute evolvere alla luce delle nuove acquisizioni della biologia. Ciononostante il suo lascito scientifico è davvero importantissimo.

L’aspetto che umanamente mi pare più significativo e rilevante è che il suo scopo era di tipo pratico e umanitario: contribuire ad aumentare la produzione alimentare, debellando carestie e fame attraverso l’individuazione e la selezione delle varietà più idonee nei vari climi per produttività, qualità e resistenza ai patogeni. Questo obiettivo doveva essere raggiunto avvalendosi delle linee di ricerca più avanzate. A questo proposito vale la pena menzionare che, secondo quanto riportato da Edgard Anderson nel suo libro Plants man and life, Vavilov era andato a Cambridge per studiare con Roland H. Biffen, che si occupava in modo tradizionale di selezione di frumenti resistenti, ma ben presto comprese che c’era molto di più da imparare da William Bateson, uno dei pionieri della genetica.



Vavilov con William Bateson durante un viaggio in Russia nel 1925

Sotto l’impulso delle idee dell’evoluzione di Darwin e della genetica mendeliana, Vavilov formulò l’ipotesi che per selezionare nuove varietà coltivabili con i requisiti desiderati di produttività e resistenza alle condizioni ambientali e agli agenti patogeni, invece di continuare a incrociare varietà già note, si potesse attingere alla maggiore variabilità genetica presente nelle aree di origine delle specie coltivate e anche alle specie o varietà affini non coltivate. A questo punto è bene notare che non esisteva ancora il concetto di biodiversità, e nemmeno di «erosione genetica», quindi Vavilov è stato un anticipatore di queste idee, che pure oggi ci sembrano familiari.

Allo scopo di individuare specie e varietà utili intraprese numerosi – quanto spesso avventurosi fino a pericolosi – viaggi di esplorazione nei cinque continenti. I suoi diari di viaggio, tradotti successivamente in inglese, si intitolano appunto Five Continents (1). Per chi volesse, ne raccomando la lettura, e si scoprirà che le avventure dei «cacciatori di piante» sono perfino più interessanti di quelle di Indiana Jones. Trascrivo qui, per ragioni di attualità, solo quanto riportato come conclusione del suo viaggio in Palestina, nel 1926: «È impossibile sfuggire agli effetti dannosi della disunione nazionale, e della discordia che sembra essere ciò che si coltiva principalmente in questo paese».

 

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Gigliola Puppi
(Già Professore di Botanica e Biologia vegetale applicata presso l’Università “La Sapienza” di Roma)

 

© Rivista Emmeciquadro

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