In questo lungo periodo di pandemia abbiamo visto chiamati in causa continuamente la scienza e gli scienziati. A volte la scienza è stata invocata come autorità indiscussa cui appellarsi per avvalorare le decisioni e per giustificare certe prese di posizione. Altre volte è stata fonte di disagio e incertezza per le divergenze e i diversi punti di vista espressi dagli scienziati. Questa situazione ha fatto sorgere, spesso in modo solo implicito, la domanda: dobbiamo e possiamo fidarci della scienza?
L’interrogativo rimanda a una tematica più ampia, che ha importanti risvolti sul piano educativo e scolastico e che vogliamo iniziare ad approfondire insieme a tre scienziati: il biologo Augusto Pessina dell’Università degli Studi di Milano, Presidente del Gruppo Italiano Staminali Mesenchimali (GISM); il matematico Giovanni Naldi professore di Analisi Numerica presso l’Università degli Studi di Milano, il fisico Carlo Sozzi dell’Istituto di Fisica del Plasma del CNR e dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca.
Nelle numerose interviste e articoli, soprattutto in questo periodo, gli scienziati non spiegano con chiarezza le potenzialità e i limiti delle loro specifiche ricerche, cosa che potrebbe aiutare a capire e a considerare le risposte e le loro proposte. Le chiediamo: quali sono le caratteristiche di metodo dell’indagine nella sua disciplina che dovrebbero essere meglio conosciute e spiegate ogni volta che si comunicano risultati o si propongono soluzioni in nome della scienza?
Augusto Pessina. In generale penso sia importante distinguere i livelli ai quali avviene la comunicazione dei risultati delle ricerche. Il primo livello è quello delle riviste specifiche specialistiche accessibile solo ai tecnici, il secondo è quello della loro divulgazione in termini di informazione massmediatica.
Per rifarci a un esempio recente, il 15 aprile sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista Cell i risultati del primo esperimento di formazione di chimere uomo-scimmia ottenute integrando cellule umane in un embrione di macaco. Questa sperimentazione ha aspetti etici gravi e inquietanti che non da tutti (compresi i ricercatori) vengono percepiti. Soprattutto quando vi sia una carente descrizione dei metodi usati o quando l’enfasi è posta sulle lusinghiere aspettative della ricerca.
Nel caso sopra citato, perfino lo stesso editore della rivista che ha pubblicato l’articolo scientifico sottolinea che non sono chiare e complete alcune informazioni sul tipo di cellule umane (embrionali o simil-embrionali) usate dai ricercatori. Ancora lo stesso editore esprime addirittura preoccupazioni per la ricaduta di queste ricerche ritenendo che quando esse attraverso i mass media arrivano al pubblico impreparato potrebbero creare gravi conseguenze sulle ricerche stesse e sui ricercatori minacciando la fiducia della gente verso la scienza!
Ciò nonostante la rivista pubblica la ricerca!
Ritengo che, almeno nel campo della ricerca biomedica dove io opero, i due aspetti primari siano quindi la chiarezza dello scopo e quella delle metodologie.
Non può essere dato per scontato il vecchio adagio che il fine buono (almeno quello dichiarato) giustifichi qualunque mezzo utilizzato per raggiungerlo. Infatti, come ha scritto il grande biochimico Erwin Chargaff (1905-1992), «il fine non giustifica il mezzo ma il mezzo può demonizzare il fine».
In generale quindi la fiducia in molta ricerca può essere minata sia quando non viene spiegato in modo chiaro lo scopo oppure questo è enfatizzato in termini quasi pubblicitari a sfondo umanitario (per esempio per progredire con le terapie), sia quando vengono taciuti o mal descritti i metodi e le tecnologie usate (spesso anche difficili da comprendere da parte dei non addetti). Ciò favorisce anche lo sviluppo di studi che implicano risvolti etici discutibili e, talvolta, inaccettabili.
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a cura di Mario Gargantini