La vita di tutti oggi è pervasa dall’uso incondizionato dei social media, anche se talora in modo indiretto e/o inconsapevole. Nati come strumenti di comunicazione per coprire lontananze spaziali e lentezze temporali, sono via via diventati principalmente mezzo di reperimento veloce di informazioni. L’autore ne discute questa caratteristica in relazione alla «formazione del pensiero critico» degli utilizzatori che è indispensabile per ogni forma di dialogo tra uomini in termini di realtà/verità. La riflessione proposta, essenziale e rigorosa, è anche una traccia per un approfondimento personale di un tema fondamentale in una società che appare sempre più «stanca della ragione», un aspetto questo ormai paradossalmente presente anche a scuola. 



 

La cultura occidentale si è strutturata intorno al tema del pensiero critico, cioè della capacità di «giudicare» la realtà (questo significa il verbo greco κρίνειν – krìnein -, da cui deriva l’aggettivo critico), in quanto elemento decisivo per una «intelligenza della realtà» che non sia illusoria. La disputa fra Socrate e i sofisti verteva proprio su questo: la possibilità di esprimere giudizi che corrispondessero alla realtà, che fossero perciò «veri», e non fossero delle pure «opinioni» soggettive. Passando per il «principio di realtà» di Tommaso d’Aquino (secondo cui conoscere è adaequatio intellectus ad rem e proprio perciò contra factum non valet argumentum) e per il criticismo kantiano, questa centralità, pur con tutte le differenziazioni nei vari sistemi di pensiero, è rimasta tale.



 

Il problema del pensiero critico oggi

Il pensiero postmoderno, divenuto dominante nella nostra epoca, ha messo invece in discussione questa centralità, in nome di un relativismo individualistico, applicabile a tutti gli ambiti: etico, conoscitivo, sociale, politico. Si tratta del cosiddetto «pensiero debole», che si illude di trarre spunto dal metodo scientifico, mentre ne è invece l’immagine speculare e distorta: il dubbio metodico del metodo scientifico non nega infatti la conoscibilità della realtà/verità, ma anzi la presuppone, nel suo continuo cercare di comprenderla un po’ alla volta, con ipotesi sempre aperte alla verifica ma mai ridotte a pura opinione.



Non a caso l’opinione è divenuta «arbitro ultimo» di ogni discussione: «è la mia opinione» è ora il modo di chiudere ogni possibilità di dialogo.

 

Le caratteristiche del pensiero critico

Il pensiero critico è la capacità di pensare «fuori dagli schemi», di giudicare fatti e opinioni in modo libero, senza adeguarsi al pensiero corrente, ed è realmente razionale, cioè non si ferma all’impressione o alla reazione del momento.

Ciò significa non dare per scontato quasi nulla, ma solo ciò che è immediatamente e indiscutibilmente evidente. Pensare in modo critico significa quindi pretendere le «prove» delle opinioni altrui come delle proprie, mettendo costantemente in discussione sé e gli altri.

Ma il pensiero critico non nasce dal nulla. Per poter parlare di pensiero critico occorrono anzitutto informazioni attendibili, adeguate e complete; attendibili, perché non possiamo accontentarci delle opinioni fuori contesto di chi non ha le competenze necessarie; adeguate, perché non ci basta una informazione corretta ma superficiale; complete, perché non possiamo dimenticare che la miglior menzogna è una verità parziale.

Ma non basta; occorrono gli strumenti per capire in modo corretto le informazioni: se acquisto un libro di fisica quantistica, ci trovo tutte le informazioni che mi servono, ma non è detto che io sia in grado di comprenderle fino in fondo; il rischio anzi che ne ricavi un giudizio totalmente errato non è per nulla trascurabile.

Infine occorre, come già detto, essere disposti a mettersi in discussione, a non restare prigionieri del proprio punto di vista e dei propri pregiudizi. Già Platone sosteneva che la «maledizione» dell’essere umano era la sua «condizione prospettica»1, cioè l’essere inevitabilmente legato al proprio punto di vista: non a caso le sue opere hanno quasi sempre forma di dialogo.

 

Molte informazioni corrispondono a molta conoscenza?

Quello che abbiamo detto finora valeva 2500 anni fa come oggi. Ciò che è tipico del nostro tempo è invece l’illusione che molte informazioni significhino molta conoscenza, che affastellare dati – magari attendibili, adeguati e completi – significhi di per sé aver ottenuto conoscenze maggiori.

Proviamo a esaminare il problema, partendo da una vignetta tratta dal fumetto Dylan Dog.

 

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Maurizio Redaelli
(Laureato in filosofia, ha lavorato nel settore della comunicazione come responsabile marketing in aziende di servizi finanziari e come collaboratore di Agenzie pubblicitarie nazionali e internazionali)

 

© Pubblicato sul n° 82 di Emmeciquadro

 

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