L’autore ripercorre le tappe salienti di una storia iniziata scomponendo la luce solare nei diversi colori e che oggi vede la spettroscopia come una delle tecniche osservative fondamentali in astronomia. Per arrivare alla recente scoperta, grazie ai dati raccolti dal Webb Telescope, che spiega come l’acqua può essere acquisita da un pianeta in formazione.
Sono un astrofisico, vivo negli Usa con la mia famiglia dal 2013 e studio la formazione di pianeti attorno ad altre stelle, chiamati pianeti “extra-solari”. La tecnica che uso nella mia ricerca è la spettroscopia, in particolare nell’infrarosso che è la parte dello spettro elettromagnetico oltre il colore rosso nel visibile a energia minore di quella che i nostri occhi possono vedere. Ed è proprio questo che dopo tanti anni di lavoro ancora costituisce l’aspetto che più mi stupisce e attrae: la spettroscopia è una tecnica che ci fa vedere quel che i nostri occhi non possono vedere (non solo nell’infrarosso, anche nel visibile). Ai miei studenti la introduco sempre con questa domanda: «how can we see what we cannot see?» (come possiamo vedere ciò che non possiamo vedere?). La spettroscopia è un dono che riceviamo dalla natura per poter vedere cose inimmaginabili e in astronomia è ancora più importante perché ci permette di studiare cose molto lontane come se fossero molto vicine. In questo breve articolo vorrei condividere qualcosa di quello che ho imparato in questi anni di lavoro di ricerca e dall’insegnamento di un corso di Spettroscopia astronomica che insegno da tre anni.
Quelle 600 righe nere sull’arcobaleno
Nel suo Astrophysics for Physicists, Arnab R. Choudhuri sostiene che la nascita della spettroscopia abbia portato alla nascita dell’astrofisica moderna: sono convinto di questa idea per i seguenti motivi (che ovviamente devo solo brevemente delineare). L’astronomia antica è certamente stata guidata da fattori pratici: l’elaborazione del calendario, o più specificamente la scansione delle stagioni (necessaria per l’agricoltura), e la navigazione. Sugli studiosi “meno pratici”, l’osservazione del cielo ha intrigato per il moto dei pianeti sulla sfera delle stelle fisse, problematica che ha assorbito la maggiore creatività scientifica da Ipparco (II secolo a.C.) fino a Newton (passando da Tolomeo, Copernico, Keplero e Galileo). Tutti questi filosofi (gli scienziati di quel tempo) si muovevano immersi in idee eterne dettate da Aristotele. Due tra la più forti erano: che le stelle sono fisse su una sfera di cristallo; che tutti i corpi celesti sono composti di etere, ovvero qualcosa di diverso dalla materia terrestre e che segue leggi diverse. In altre parole, il cielo è lontano, puro, e sostanzialmente non conoscibile attraverso l’esperienza delle cose terrestri.
Mentre i filosofi si arrabattavano a spiegare le loro intuizioni e osservazioni nel contesto di queste idee eterne, due scoperte hanno prodotto una scossa mortale che ne ha determinato la fine. Una è la scoperta della parallasse, attorno al 1838, che ha “rotto” la sfera di cristallo e ha dimostrato che le stelle hanno distanze diverse. L’altra, quasi due secoli prima, è legata leggendariamente alla caduta di una mela da un albero nella placida campagna inglese, mentre a Londra infuriava la peste (1666). Con questa osservazione, il giovane introverso Newton ebbe la geniale intuizione che la forza che faceva cadere una mela era la stessa che teneva la Luna attaccata alla Terra. Il cielo, dunque, non è determinato da diverse leggi fisiche rispetto alla Terra, come diceva Aristotele. Improvvisamente, il cielo diventava meno estraneo e molto più vicino. Ma tutto questo non intaccava ancora una parte delle idee: quella relativa alla materia di qui gli oggetti celesti sono fatti. Anche su questa idea, fu Newton a cominciare la scalata che avrebbe portato a una visione completamente nuova 200 anni dopo (pensate, con i ritmi di oggi, cosa vuol dire aspettare 200 anni).
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Andrea Banzatti
Astrofisico, assistant professor al Dipartimento di Fisica della Texas State University a San Marcos (Texas)