Nell’anniversario marconiano una miniserie televisiva ha fatto incontrare al grande pubblico la persona e l’opera del premio Nobel, padre delle telecomunicazioni. Un’occasione per riproporre una più accurata ricostruzione dell’attività scientifica di Marconi, come quella presentata nel n. 37 di Emmeciquadro.

 



Portare la scienza sul grande schermo e sulle piattaforme digitali è impresa non facile. In anni recenti si registrano diversi tentativi – da Gravity, a Interstellar, a La teoria del tutto, a Big Bang theory – con alterni risultati sia in termini di gradimento presso il pubblico sia, soprattutto, in termini culturali e di capacità di comunicazione scientifica.



I tentativi sono apprezzabili e a volte i progetti vedono coinvolti anche importanti scienziati, almeno come consulenti. Ma la scienza ha un suo metodo e un suo linguaggio specifico, che non è indifferente a qualsiasi tipo di «traduzione»; dal canto suo lo strumento cinematografico presenta condizioni e limiti spesso insuperabili: anche quando non appaiono evidenti e plateali errori scientifici, prevalgono gli aspetti emotivi e spettacolari che assorbono tutta l’attenzione e riducono o annullano le componenti più propriamente conoscitive. È pur vero, peraltro, che emozioni e spettacolo non sono estranei al lavoro scientifico: la scienza non è priva di emozioni e spesso la scienza è uno spettacolo fatto di vicende intriganti, di colpi di scena, di sorprese, di meraviglia. Questi però sono ingredienti del lavoro di ricerca, che non lo esauriscono: costituiscono semmai un vantaggio e un aiuto alla conoscenza, non dovrebbero diventare ostacoli.



Non si tratta quindi di insegnare e di imparare la scienza tramite i film o le fiction; e per questo i tentativi di «divulgare» i contenuti scientifici con questi supporti sono in genere fallimentari e a volte patetici.

Quello che però il linguaggio cinematografico per sua natura potrebbe consentire è di raccontare l’esperienza degli scienziati: non tanto e non solo negli aspetti aneddotici o curiosi quanto l’esperienza stessa del fare ricerca, cioè l’avventura di uomini e donne che hanno giocato tutta la loro umanità, nel tentativo di rivelare qualche segreto nascosto tra le pieghe della realtà. Prima e al fondo dei tecnicismi sperimentali e dei formalismi matematici, ci sono uomini e donne che cercano, che osservano, che ragionano, che verificano e anche che rischiano, che sbagliano, che collaborano…

In questa ottica anche il pubblico generico potrebbe sentirsi interessato e coinvolto, vedendo proiettati sullo schermo atteggiamenti, dinamiche, processi vissuti da tutti in quella particolare «ricerca» che è la vita quotidiana.

Si tratta forse di trovare la più adeguata forma di rappresentazione e di racconto. Quella del taglio biografico sembra essere una strada efficace. È quella scelta per La teoria del tutto (Stephen Hawking) ma prima ancora era stato così per A beautiful mind (John Nash), poi per Imitation Game (Alan Turing), per L’uomo che vide l’infinito (Srinivasa Ramanujan), per L’uomo che illuminò il mondo (Thomas Edison), per Oppenheimer e pochi altri; film che hanno raggiuto qualche buon esito, anche se non hanno pienamente superato quei condizionamenti di cui sopra.

Un simile bilancio in chiaroscuro – forse un po’ più chiaro che scuro – può essere formulato anche per la miniserie televisiva L’uomo che ha connesso il mondo, fiction trasmessa in prima visione su Rai 1 nel maggio scorso e incentrata sulla figura di Guglielmo Marconi (interpretato da Stefano Accorsi) nel 150esimo dalla nascita.

Stefano Accorsi è Marconi nella fiction “L’uomo che ha connesso il mondo”

Volendo applicare, per una valutazione, il filtro del «racconto dell’esperienza» troviamo delle parti ben riuscite e convincenti altre meno. Le prime soprattutto quando vengono ricostruiti i primi esperimenti del giovane Marconi, condotti con tenacia ed entusiasmo in anni di febbrile attività nello splendido isolamento di Villa Griffone, fino al momento culminante di quel «colpo di fucile oltre la collina» che attestava l’avvenuta trasmissione wireless del segnale elettromagnetico grazie alle apparecchiature ideate e messe a punto dall’autodidatta Guglielmo. È resa con efficacia l’esperienza della scoperta, comune nel grande e nel piccolo a tutti coloro che fanno ricerca; un’esperienza fatta, al di là degli stereotipi, di dedizione, di perseveranza, di cura dei dettagli, di autocritica, di intuizioni ma anche di attesa, di sorpresa e di una gioia che in questo caso contagia anche lo scetticismo del padre dello scienziato.

Resta in ombra invece la successiva attività di ricerca di Marconi; forse anche per la scelta narrativa di sviluppare la fiction attorno a una lunga intervista da lui concessa nel 1937 attraverso la quale vengono ricostruiti in flashback i momenti salienti della sua storia. Inoltre, ancor più distraente è il fatto di aver focalizzato l’interesse dell’intervistatrice, e dello spettatore, sul tema della presunta nuova arma – il cosiddetto «raggio della morte» – alla quale Marconi avrebbe segretamente indirizzato le sue ultime ricerche. Qui è evidente la prevalenza dell’effetto cinematografico sulla aderenza alla realtà dei fatti. Dare al racconto una pennellata da spy story può alleggerire il carico di una linguaggio troppo scientifico: peccato che non ci sia alcuna corrispondenza con ciò che effettivamente Marconi stava studiando e sperimentando. Inoltre, così si perde l’occasione per mostrare aspetti interessanti dell’attività dello scienziato, che non si è fermato soddisfatto per la conquista del premio Nobel per la fisica (1909) ma ha continuato le sue ricerche mosso dalla curiosità e dal gusto di scoprire tutte le possibili modalità di utilizzo delle onde elettromagnetiche: ha perfezionato gli strumenti di trasmissione e ricezione, ha esplorato le caratteristiche e le potenzialità delle diverse frequenze (per esempio le microonde), ha collezionato brevetti; insomma, ha continuato a essere scienziato anche quando la gestione delle aziende che aveva creato e gli importanti incarichi istituzionali  (è stato presidente del Cnr e della Reale Accademia d’Italia) lo assorbivano parecchio. Nella fiction di Rai1 (ora disponibile su RaiPlay) questi aspetti sono tutti presenti ma quasi come contorno delle più intriganti questioni politiche. Viene più volte mostrato il laboratorio allestito sul panfilo Elettra, dove Marconi prevalentemente viveva con la seconda moglie e con la figlia: ma qui, a differenza del primo laboratorio di Villa Griffone, resta più un elemento di sfondo, quasi coreografico, riempito da strumenti che al pubblico non dicono nulla, senza il protagonista in azione.

Forse la visione può acquistare una maggiore efficacia se integrata da un approfondimento come quello presentato da Carlo Colesanti  sul n. 37 di Emmeciquadro che qui riproponiamo:

L’invenzione del telegrafo senza fili 
La straordinaria avventura di Guglielmo Marconi

 

Mario Gargantini
(Direttore di Emmeciquadro)

 

© Rivista Emmeciquadro

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