Ci serve più o meno tecnologia? La domanda, che solo qualche decennio fa sarebbe sembrata assurda, è oggi centrale in qualsiasi dibattito sul futuro della nostra società, tanto più dopo le ben note vicende legate al Coronavirus. Tuttavia la questione è complessa e presenta molti equivoci, che devono essere chiariti se si vuole rispondere correttamente.(prima parte)



 

Per vivere meglio in futuro avremo bisogno di più tecnologia o di meno tecnologia?
Solo qualche decennio fa questa domanda sarebbe apparsa assurda a chiunque, dato che, proprio grazie alla tecnologia, il mondo stava finalmente conoscendo, per la prima volta nella sua storia, un benessere sempre più diffuso, che in breve tempo aveva liberato gran parte dell’umanità (e prometteva di liberare presto anche la parte restante) dalla schiavitù dei lavori pesanti, nonché dalla paura di morire di fame, di freddo e soprattutto di malattia, facendo raddoppiare la vita media nell’arco di soli due secoli.
Che oggi tale questione rappresenti invece il cuore del dibattito pubblico in molti, se non in tutti, i paesi progrediti – e in particolar modo in Italia, a causa della presenza di importanti forze politiche che teorizzano la cosiddetta “decrescita felice” – la dice lunga su quanto sia cambiato il mondo in così poco tempo. La domanda è: perché?



 

Il declino della fiducia nella tecnologia

Non c’è dubbio che il nostro atteggiamento verso la tecnologia abbia cominciato a cambiare quando ci si rese conto di quanto potesse non solo migliorare la nostra vita, ma anche metterla a rischio, con la creazione di armi potenzialmente in grado di portarci all’autodistruzione. In genere si fa coincidere la “fine dell’innocenza” tecnologica con l’esplosione delle prime atomiche ma in realtà il cambiamento avvenne gradualmente e fu determinato assai più dalla continua minaccia delle bombe nucleari che sarebbero potute esplodere sulle nostre teste durante la Guerra Fredda che non dalle due che erano esplose realmente in un paese così lontano da apparire ai più quasi irreale e che in ogni caso avevano avuto almeno il merito di porre fine alla guerra più sanguinosa mai combattuta dall’umanità.



In effetti, dopo Hiroshima e Nagasaki la fiducia nella tecnologia durò ancora per almeno altri vent’anni: per convincersene basta vedere l’esaltazione acritica nei telegiornali degli anni Cinquanta o Sessanta di qualsiasi forma di “cementificazione”, che oggi invece rifiutiamo in blocco (peraltro in modo altrettanto acritico), ma che per la gente di allora significava l’inizio della ricostruzione dopo il disastro della Seconda Guerra Mondiale, per non parlare del generale entusiasmo per la corsa allo spazio.

E infatti molto ha pesato anche la grande delusione seguita alla conquista della Luna, che rappresentò il vertice della “dimensione ideale” dell’impresa tecnologica, ma al tempo stesso segnò l’inizio del suo declino, mentre tutti si aspettavano che quel “piccolo passo” di Armstrong fosse il primo di una nuova era di meraviglie e di pace. L’icastica battuta di Buzz Aldrin, «mi avevano promesso Marte, mi hanno dato Facebook», non credo rifletta solo la delusione consapevole di chi era giovane allora, ma anche quella (perlopiù inconsapevole, ma non meno reale) di chi è giovane oggi, che magari allo sbarco sulla Luna non ci crede nemmeno e apparentemente apprezza molto di più Facebook, ma poi lo usa per andare a caccia delle più stravaganti teorie pseudoscientifiche, dimostrando così, sia pure in modo improprio, che una tecnologia ridotta a puro utilitarismo non basta neanche oggi.
Comunque il cambiamento decisivo avvenne quando cominciò ad emergere la questione ecologica, che oggi costituisce il principale problema con cui la tecnologia si deve confrontare e rispetto al quale, per l’appunto, si pone in genere il dilemma se, per risolverlo, di tecnologia ce ne occorra di più o di meno. La successiva crisi economica, iniziata nel 2007 e dalla quale non siamo mai realmente usciti, ha fatto il resto, perché anche chi era più disposto a sorvolare, in tutto o in parte, sui problemi ambientali causati dalla nostra civiltà tecnologica finché creava benessere, ovviamente lo è molto meno quando anche tale aspetto sembra non essere più garantito. Per questo negli ultimi anni è cresciuto sempre più il numero di coloro che ritengono che abbiamo esagerato e che per garantirci un futuro migliore sia necessaria meno tecnologia.

Come subito vedremo, questo è vero in un certo senso, ma non lo è in tutti i sensi: l’espressione “più tecnologia” è infatti intrinsecamente ambigua, giacché può essere intesa in almeno tre modi diversi (più conoscenza tecnologica, più invenzioni tecnologiche, più oggetti tecnologici) e ciascuno di essi può a sua volta essere giusto da un certo punto di vista e sbagliato da un altro.

 

Tecnologia ed ecologia

Paradossalmente, è proprio la questione ecologica quella che ci dimostra più chiaramente che della tecnologia non possiamo fare a meno, se vogliamo garantirci un futuro vivibile. Benché infatti molti problemi ecologici non possano essere risolti dalla sola tecnologia, ma richiedano anche cambiamenti nel nostro stile di vita, è altrettanto evidente che questi da soli non potrebbero mai essere sufficienti.
Il motivo fondamentale è che se da un lato è vero che la tecnologia ci ha spinti a fare un uso eccessivo delle risorse naturali, per altro verso ci ha anche consentito di farne un uso molto più efficiente: si pensi alla produzione di cibo, al riscaldamento, all’acqua potabile, all’igiene, alla medicina, ai trasporti… Pertanto, se ci limitassimo a eliminarla o anche solo a ridurla drasticamente non torneremmo semplicemente a un modo di vivere più scomodo (che peraltro ben pochi sarebbero realmente disposti ad accettare, una volta che si fossero resi conto di quanto scomodo sarebbe), ma, ben più radicalmente, non saremmo in grado di mantenere in vita gran parte della popolazione umana oggi esistente. In altre parole, la Terra non può più sostenere a lungo un’umanità come quella attuale che continui a fare uso di una tecnologia come quella attuale, ma ancor meno potrebbe sostenerla se essa tornasse a fare uso di una tecnologia più arretrata.

 

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Paolo Musso
(Professore Associato di Filosofia Teoretica presso l’Università dell’Insubria di Varese – Corso di laurea in Scienze della Comunicazione)

 

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