Nel corso dell’evoluzione si sono sviluppati complessi sistemi per adattare gli organismi alle variazioni di disponibilità di ossigeno; sistemi spiegati dalle ricerche di Kaelin, Ratcliffe e Semenza, spianando la strada a possibili applicazioni terapeutiche.William G. Kaelin Jr, Sir Peter J. Ratcliffe and Gregg L. Semenza “for their discoveries of how cells sense and adapt to oxygen availability”
Come è a tutti noto, le piante e gli animali superiori, uomo incluso, utilizzano l’ossigeno atmosferico per sostenere il metabolismo ossidativo, vale a dire quell’insieme di trasformazioni che consentono la completa ossidazione dei nutrienti fino a produrre anidride carbonica e acqua.
Tale innovazione metabolica è stata resa possibile dalla comparsa dell’ossigeno nell’atmosfera circa due miliardi di anni fa, grazie all’attività fotosintetica degli organismi vegetali. A tale cambiamento si è associato un cospicuo vantaggio energetico: la degradazione ossidativa dei nutrienti produce infatti energia in una misura di più di un ordine di grandezza superiore rispetto a quella anaerobica, cioè quella che avviene in assenza di ossigeno.
È tuttavia anche vero che sia a livello di organismo sia di singoli tessuti la disponibilità di ossigeno può variare in misura anche cospicua, in dipendenza delle condizioni fisiologiche o metaboliche.
A questo riguardo, esempi immediatamente comprensibili a chiunque sono la condizione ipossica (scarsità di ossigeno) che si instaura a livello dei muscoli durante un esercizio fisico prolungato, o quella che si verifica in alta quota, una condizione questa che interessa l’intero organismo.
Dato che nel corso dell’evoluzione gli animali hanno sviluppato complessi sistemi per adattarsi a tali variazioni, è evidente che queste risposte adattative devono giocare un ruolo cruciale per garantire le migliori chances di sopravvivenza.
Il premio Nobel per la Fisiologia o Medicina del 2019 è stato assegnato agli americani William Kaelin Jr e Gregg Semenza e al britannico Peter J. Ratcliffe proprio per avere chiarito in dettaglio i meccanismi molecolari che sono alla base di questi fenomeni di adattamento.
Un primo impulso alle ricerche che hanno fruttato il premio Nobel ai tre scienziati è dovuto al contributo di diversi gruppi che negli anni 1986-87 identificarono l’eritropoietina (EPO), una proteina ad azione ormonale prodotta e rilasciata da particolari cellule renali quando un individuo si trova in condizioni di ipossia (scarsità di ossigeno): tale ormone stimola infatti un incremento degli eritrociti circolanti (e quindi dell’emoglobina disponibile).
Si tratta evidentemente del già menzionato processo di adattamento all’alta quota.
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Paolo Tortora(Ordinario di Biochimica presso il Dipartimento di Biotecnologie e Bioscienze dell’Università degli Studi di Milano Bicocca)