Specchi modulari e ottica adattativa sono le tecnologie avanzate che hanno permesso a due dei tre vincitori del premio Nobel per la fisica 2020 di studiare accuratamente la dinamica delle stelle che orbitano attorno al centro della Via Lattea e di ottenere una forte indicazione della presenza di un buco nero supermassiccio. Una scoperta che può fornire un interessante ulteriore test della Relatività Generale.
C’è un fattore che accomuna i due astrofisici Andrea Mia Ghez (1965-…) e Reinhard Genzel (1952-…). E non è solo il premio Nobel per la Fisica che hanno recentemente vinto – assieme a Roger Penrose (1931-…) – grazie ai loro studi sulle regioni centrali della nostra galassia. Questo fattore è l’entusiasmo, entusiasmo e passione per il loro lavoro. D’altro canto non si può lavorare per oltre 20 anni a un progetto senza essere trainati da un entusiasmo che è lo specchio del desiderio di conoscenza. Ed è una cosa contagiosa: ascoltando le loro Nobel Lecture non si può non essere coinvolti, trascinati, letteralmente presi dal racconto di una grande avventura. Ho voluto sottolineare subito questo aspetto che mi pare fondamentale in generale, ma in particolare nella ricerca scientifica quando letteralmente si esplora l’ignoto.
Andrea Mia Ghez, newyorkese di nascita ma californiana di adozione, e il tedesco Reihard Genzel sono a capo dei due più importanti gruppi di ricerca per lo studio delle regioni centrali della Via Lattea e negli anni sono stati in grado di coinvolgere e formare decine di giovani scienziati nella ricerca della colossale entità che ne abita il centro. Non parliamo qui di buchi neri di origine stellare, ultimo stadio della vita di stelle con massa superiore a quattro volte quella del Sole, ma di oggetti di una taglia decisamente differente. Le osservazioni astronomiche sia nel range del visibile, ma soprattutto agli estremi dello spettro elettromagnetico cioè nelle onde radio e nei raggi X, mostrano come il centro di molte galassie osservate, specialmente quelle denominate nuclei galattici attivi, è abitato da un oggetto esotico: un buco nero super-massiccio la cui massa varia da qualche milione a decine di miliardi di volte la massa del Sole. Come questi oggetti si siano formati, quale sia la loro storia e le loro caratteristiche, sono tutte questioni ancora aperte di cui, per molte di esse, non abbiamo ancora un’idea precisa. Per questo è fondamentale andare a scandagliare con sempre maggiore dettaglio le regioni centrale della nostra galassia. Da un lato, infatti, occorre acquisire l’evidenza sperimentale che anche la Via Lattea ospiti un buco nero super-massiccio al suo centro (anche se per fortuna non particolarmente attivo) e dall’altro essendo questo il buco nero più vicino a noi esso diventa uno strumento privilegiato per cogliere le caratteristiche salienti di questi esotici oggetti e del loro legame con la galassia ospitante.
Bucchi neri super-massicci
Come però studiare un oggetto che, il nome stesso lo dice, è nero cioè non emette radiazione direttamente rivelabile (se si esclude la teoricamente prevista ma non ancora osservata radiazione di Hawking) e la cui gravità è talmente intensa che neanche la luce con la sua imbattibile velocità è in grado di sfuggirne? Per rispondere a questa domanda è importante introdurre il concetto di raggio di Schwarzschild. Nel 1916 Karl Schwarzschild nella sua derivazione della soluzione delle equazioni di Einstein per il campo gravitazionale di un oggetto a simmetria sferica (una stella per esempio) lo introdusse per la prima volta: esso risulta direttamente proporzionale alla massa dell’oggetto, cioè più grande è la massa dell’oggetto più grande è il suo raggio di Schwarzschid. Un buco nero è definito come un oggetto che ha dimensioni inferiori al suo raggio di Schwarzschild. Per esempio se fossimo in grado di comprimere la Terra entro un raggio di circa 1 cm essa diventerebbe un buco nero.
Vai al PDF per l’INTERO articolo
Davide Maino
(Professore di Fisica Sperimentale presso l’Università degli Studi di Milano – Sezione Fisica dei Plasmi e Astrofisica)