Il frutto di un lavoro lento, fatto di piccoli tasselli aggiunti anno dopo anno, con pazienza, senza lasciarsi scoraggiare dai numerosi fallimenti, sfruttando le nuove tecnologie di volta in volta disponibili. Un esempio di un percorso di successo sviluppato secondo le modalità più classiche della ricerca in ambito biologico. Una serie di scoperte che hanno permesso di mettere a punto metodologie di monitoraggio sanguigno, che ha portato a eliminare il rischio di epatite a seguito di trasfusione del sangue.



 

Il premio Nobel per la Fisiologia o Medicina del 2020 è stato assegnato a tre scienziati che hanno contribuito a scoprire il virus dell’epatite C (HCV, Hepatitis C Virus): gli statunitensi Harvey Alter e Charles Rice e il britannico Michael Houghton.

L’HCV determina lo sviluppo di epatiti acute e croniche che comprendono effetti lievi e transitori (circa il 30% dei casi), oppure casi più gravi in cui si sviluppa un’infezione cronica (70% dei casi) che può portare a cirrosi (circa il 20% dei casi a 20 anni dall’infezione) e a un significativo aumento del rischio di sviluppare un epatocarcinoma (rischio 17 volte maggiore di una persona HCV-negativa) [1]. A oggi si ritiene che ci siano circa 71 milioni di persone al mondo con una infezione cronica da HCV (in Italia si stima un tasso di infezione dell’11% della popolazione) e si è stimato che nel solo 2016 circa 400.000 persone siano morte a seguito di infezione con HCV, principalmente per lo sviluppo di cirrosi epatica ed epatocarcinoma.



L’epatite, un’infiammazione del fegato, è nota da secoli. Ippocrate la cita nel De Morbus Internis parlando di «epidemia di ittero» e la sua natura infettiva era già stata ipotizzata nell’ottavo secolo quando Papa Zaccaria a Roma mise in quarantena tutte le persone con ittero per evitare che la malattia si propagasse fuori città [2]. In tempi più recenti, l’epatite è stata riconosciuta come malattia infettiva a seguito di eventi epidemici che si sono verificati specialmente in occasione della Prima guerra mondiale (per esempio a Gallipoli nel 1915) [3], o durante la Seconda guerra mondiale quando ci furono più di 200.000 casi tra le truppe americane e fino a 5 milioni di casi tra civili e militari tedeschi [4]. Negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso furono anche riportati eventi epidemici dovuti all’uso improprio di siringhe [5] e un’osservazione simile fu fatta fin dal 1885 da A. Lurman che, correlando i fenomeni, si limitò però a notare che molte persone vaccinate per il vaiolo sviluppavano una forma di ittero [6]. Simile correlazione fu poi osservata anche per molti altri vaccini: è noto il caso di 50.000 soldati americani che nel 1942 furono vaccinati per la febbre gialla e svilupparono l’ittero [7]. La trasmissione da persona a persona era quindi correlata alle trasfusioni di sangue e all’uso di siringhe: negli anni Sessanta la probabilità di sviluppare un’epatite a seguito di una trasfusione di sangue arrivava a circa il 45% [8, 9].



Sebbene non fosse chiaro quale fosse l’agente infettivo, nel 1947 il medico inglese F.O. MacCallum classificò le epatiti infettive in epatite A ed epatite B, osservando due diverse vie di infezione [10]. Una prima via era di tipo oro-fecale o dovuta all’acquisizione di cibo o acqua contaminata, una seconda era mediata dal siero. Studi svolti su alcuni carcerati e malati mentali americani negli anni Quaranta confermarono queste ipotesi [11].

Negli anni Sessanta il gruppo di ricerca di Baruch Blumberg dimostrò l’associazione dell’epatite di tipo B con un virus (il virus dell’epatite B, un virus a DNA appartenente agli Hepadnaviridae) [11]. Questa scoperta valse a Blumberg il premio Nobel per la Medicina nel 1976. Ai primi degli anni Settanta si scoprì poi che l’altro tipo di infezione era dovuto invece a un secondo virus, il virus dell’epatite di tipo A (HAV, un virus con genoma a RNA, appartenente ai Picornaviridae) [12]. Negli anni Settanta tuttavia, nonostante questi indubbi successi, un significativo numero di persone trasfuse continuava a sviluppare un’epatite cronica.

È in questo periodo che Harvey Alter si associa al gruppo di ricerca di Blumberg che dirigeva allora la banca del sangue dell’NIH. Qui Alter dimostra che l’80% dei casi di epatiti post-trasfusionali non era correlato all’infezione con HBV.

 

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Enzo Tramontano

(Professore di Microbiologia e Virologia all’Università di Cagliari)

 

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