Una sola salute: è l’idea di base di una nuova concezione della medicina che riconosce come la salute degli essere umani, degli animali, delle piante e dell’ambiente siano strettamente interdipendenti. Un’idea risalente al mondo antico, ripresa all’inizio di questo secolo e che prende forza e urgenza di fronte all’attuale pandemia. Una visione che può cambiare la medicina e la sanità, in una prospettiva di ecologia integrale che ponga in primo piano la cura del pianeta e dei suoi abitanti.



 

Un cambio radicale. Della nostra esistenza ma anche del modo di pensare. L’emergenza pandemica che stiamo vivendo rende indispensabile rivedere il paradigma interpretativo della medicina e modificare la stessa concezione di salute. Quest’ultima non può più essere concepita, come si è fatto sino ad ora, solo in rapporto all’esistenza umana, quindi in una prospettiva antropocentrica (human health, salute dell’uomo), ma deve essere considerata in termini più generali, in una visione complessiva, come una dimensione che connette tra loro uomini, animali, piante e ambiente (one health, una sola salute). Essa si deve inevitabilmente basare sul riconoscimento che la salute umana, animale, vegetale e quella dell’ecosistema sono tra loro strettamente correlate nell’ambito di una interpretazione evoluzionistica della nostra biosfera. Deve anche essere inevitabilmente concepita sempre più in una prospettiva universale e globale (global health) superando la limitata visione locale e selettiva (selective health) che ancora oggi caratterizza l’impostazione sanitaria dei nostri servizi.



 

Un’idea antica: imparare dal passato per costruire il futuro

 

In tempi moderni il termine «One Health» inizia a essere usato nell’ambito della conferenza One World, One Health: Building Interdisciplinary Bridge to Health in a Globalized World organizzata dalla Wildlife Conservation Society (WCS) e svoltasi a New York il 29 settembre 2004. Da quel momento molte istituzioni iniziano a impegnarsi attivamente per realizzare strategie sempre più efficaci atte a prevenire le future crisi sanitarie.

L’idea di base su cui si fonda questa concezione, che riconosce come la salute degli esseri umani, degli animali, delle piante e dell’ambiente sia strettamente interdipendente, risale in realtà al mondo antico. Precisamente trae origine dalla «filosofia della Natura» tipica del pensiero greco classico, anche se nei secoli successivi lo sviluppo in ambito medico delle conoscenze anatomo-fisiologiche, eziopatogenetiche e microbiologiche ha contribuito in modo importante a consolidarne i fondamenti portanti.



Il filosofo greco Aristotele (384-322 a.C.), nella sua opera Historia animalium, mette in evidenza come sia possibile osservare importanti analogie tra la salute e la malattia negli uomini e negli animali. Ippocrate (460-367 a. C.), considerato il padre della medicina moderna fondata su un’interpretazione razionale dei fenomeni patologici, riplasma questa idea sottolineando l’importanza dell’interazione tra fattori interni ed esterni sulla salute. La sua interpretazione si basa sulla teoria umoralistica che suppone l’esistenza di un’analogia tra il macrocosmo dell’universo con i suoi quattro elementi (acqua, terra, fuoco e acqua) – che attraverso le forze di attrazione e repulsione danno origine ai fenomeni naturali – e il microcosmo del corpo umano con i suoi quattro umori (sangue, flegma, bile gialla e bile nera o atrabile) – che con il loro equilibrio determinano salute e con il loro squilibrio, in eccesso o in carenza, determinano malattia –. Egli però, come detto, dava grande importanza anche agli elementi esterni. Nel libro De aere, aquis et locis sottolinea come la salute dell’uomo è fortemente condizionata dalle condizioni climatiche e dalla collocazione geografica: in altre parole dall’ambiente in cui si vive.

Una sintesi tra l’interpretazione medica ippocratica e le analogie zoo-antropologiche aristoteliche inerenti, forma, funzione e uso delle parti interne del corpo è quella operata nel primo secolo dopo la nascita di Cristo da Galeno di Pergamo (129-216 d. C), che riprende l’idea umoralistica della salute applicandola sia all’interpretazione dei morbi animali sia a quella delle malattie umane, in una visione unitaria di tutto il mondo vivente.

La rivoluzione anatomica operata nel Rinascimento da Andrea Vesalio (1514-1564) porta per la prima volta a «scoprire» la vera struttura del corpo umano, consentendo di osservare, attraverso la dissezione cadaverica, la forma degli organi e degli apparati interni, aprendo le porte allo studio della loro funzione (fisiologia) e fornendo le basi per la nascita di una vera «anatomia comparata» in grado di stabilire le reali analogie e le significative differenze tra uomini e animali. Nei secoli successivi l’italiano Giovanni Maria Lancisi (1654-1720) nei suoi scritti scientifici mette in rilievo il ruolo dell’ambiente nella diffusione delle malattie sia nell’uomo sia negli animali, mentre il francese Vicq d’Azyr (1749-1794) è il vero iniziatore di una medicina comparata, precisando come fosse necessario superare la linea di demarcazione tra medicina umana e medicina veterinaria e intuendo il ruolo chiave, oltre che dell’ambiente, degli animali nella propagazione delle malattie. Un’idea ripresa e puntualizzata anni dopo dal naturalista italiano Agostino Bassi (1773-1856), che dimostra come una grave malattia dei bachi da seta, il mal calcino, che ne causava rapidamente la morte con un conseguente nefasto risvolto economico sulla fiorente industria della seta, fosse causata da un microscopico parassita. Era la prima dimostrazione del «contagio vivo», cioè del fatto che elementi viventi potessero causare malattie di altri viventi: l’evidenza di quella interconnessione eco-biologica in ambito sanitario più volte già  preconizzata nel corso dei due millenni precedenti.

 

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Vittorio A. Sironi

(Docente di Storia della medicina e della sanità e di Antropologia medica. Direttore del “Centro studi sulla storia del pensiero biomedico”, Università di Milano-Bicocca)

 

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