Fa un po’ sorridere la par condicio con la quale i media italiani si sono affrettati a presentare la sessione plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze in corso in questi giorni in Vaticano sul tema del Darwinismo. Fin dai giorni precedenti il convegno, prevedendo un importante intervento di Benedetto XVI, tutti si sono preoccupati di bilanciare la situazione dando la parola agli scienziati ed eleggendo il fisico Stephen Hawking a simbolo della scienza “laica”, libera da ogni sudditanza confessionale; fino a raggiungere il vertice, nel Corriere della Sera del 1 novembre, di riportare stralci del discorso del Pontefice in una sintesi giornalistica affiancata da un ampio estratto della relazione dello scienziato inglese. Peccato per i lettori. Per due motivi.



Il primo è che così hanno perso l’opportunità di cogliere la portata di un intervento che, saltando a piè pari ogni contrapposizione polemica, ha offerto riflessioni di grande utilità per coloro che sono impegnati nel lavoro scientifico, ma anche per chiunque desideri comprendere il ruolo e il valore della scienza nella cultura contemporanea. Il Papa ha sottolineato le condizioni che rendono possibile, efficace e gratificante tale lavoro: «Per svilupparsi ed evolversi il mondo deve prima essere e quindi essere passato dal nulla all’essere»; la Creazione quindi, lungi dall’essere un concetto ingombrante o addirittura un ostacolo per la scienza, ne costituisce la condizione primaria. Fare scienza è possibile perché la realtà è data, esiste e si fa incontro all’uomo suscitando la sua meraviglia e la sua curiosità. Ma non solo. La nozione di creazione è alla base anche di ogni discorso sull’evoluzione, in quanto è il rapporto continuo col Creatore che fonda il divenire. La creazione insomma non è soltanto un evento da collocare all’inizio del cosmo, prima del big bang; è piuttosto l’opera continua del Creatore che sostiene tutta la realtà. Un’opera che ha come corrispettivo, da parte dello scienziato, il continuo stupore che innesca e alimenta l’indagine; la continua sorpresa nel vedere la manifestazione della “matematica innata” nei fenomeni naturali, nel cogliere l’emergere della struttura razionale e ordinata dell’universo (cosmo = ordine, bellezza) che lo rende accessibile alla ragione umana e fonda la possibilità di «leggere il grande libro della natura». Un libro le cui pagine non potrebbe essere sfogliate (o meglio srotolate, secondo il significato originario del termine evoluzione, magistralmente richiamato da Benedetto XVI) senza la costante «presenza fondamentale dell’autore».



Il secondo motivo di rammarico viene proprio dalle conclusioni del “portavoce” della scienza. Hawking ammette che i pur esaltanti progressi della fisica del 900 lasciano aperti ancora molti interrogativi fondamentali circa l’evoluzione dell’universo. Ma poi, con inspiegabile sicurezza, afferma che gli scienziati sono sempre più vicini a “rispondere alle domande di sempre: Perché siamo qui? Da dove veniamo?; e aggiunge che le risposte si potranno trovare «all’interno del campo della scienza». Uno scivolone epistemologico, che fa retrocedere bruscamente la consapevolezza maturata dei ricercatori in un secolo di riflessioni sulla natura del pensiero scientifico e riporta le lancette della storia a quei momenti di orgogliosa presunzione, quando si pensava che la scienza fosse l’unica forma di conoscenza razionale e fondata. Fortunatamente sono molti gli scienziati che non condividono, almeno in linea di principio, questa impostazione. Del resto non dovrebbe essere difficile convincersi che la scienza ha solo da guadagnare nel delimitare con chiarezza il suo campo d’azione; e nel riconoscere la validità e l’inevitabilità di tanti interrogativi che affiorano dal suo stesso terreno ma che esigono l’applicazione di altri metodi di conoscenza.

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