L’astronomo che cento anni fa avesse puntato il suo telescopio verso il cielo, pur osservando le stesse stelle e galassie che noi oggi osserviamo, non poteva sospettare – non ne aveva il modo – che ciò che stava vedendo era l’album fotografico temporale di una “storia”. Una storia vecchia di 14 miliardi di anni le cui tappe evolutive sono, incredibilmente, tutte presenti, fotografabili oggi in un’unica istantanea, quasi che il tempo per loro fosse sempre al presente. Persino Einstein, cent’anni fa, non riusciva a credere alle sue equazioni che indicavano un Universo in espansione, quindi in evoluzione, perché le evidenze osservative del tempo sembravano contraddirle. Le prime avvisaglie vennero, all’inizio del secolo scorso, dalle osservazioni dell’astronomo americano Edwin Hubble, che notò come tutte le galassie gli apparissero allontanarsi con una velocità tanto maggiore quanto maggiore era la loro distanza: segno inequivocabile di una espansione generalizzata di tutto il Cosmo.
Oggi, dopo cent’anni, grazie all’incredibile sviluppo della tecnologia e della capacità di osservazione dei nuovi telescopi terrestri e spaziali, siamo in grado di ricostruire il mosaico dell’evoluzione cosmica con grande precisione lungo un periodo di circa 14 miliardi di anni. Su questa evoluzione del Cosmo, si innesta l’evoluzione biologica e umana, che appare dunque come la logica continuazione di un’evoluzione globale: di fatti, anche se non possiamo ancora provare scientificamente che l’evoluzione del Cosmo sfoci necessariamente nel sorgere della vita sulla Terra e in altri luoghi, la sua storia, in particolare la sintesi degli elementi chimici, ne è comunque un presupposto necessario. Certo, non va sottaciuto il fatto che il grado di complessità, il numero degli anelli mancanti e dei salti ancora inspiegati dell’evoluzione biologica sono di gran lunga maggiori che nella storia evolutiva del Cosmo che, in paragone, appare di una semplicità e linearità quasi disarmante. Non dimentichiamo poi che, come già accennato, noi possiamo osservare le varie fasi evolutive dell’Universo al presente, nell’atto stesso in cui avvengono, come se avessimo congelato lo scorrere del tempo. Questa possibilità ci è concessa perché la luce, che trasporta le immagini del Cosmo, ha una velocità elevatissima per i nostri standard terrestri, ma ben piccola per le dimensioni dell’Universo. Così vediamo oggi com’era fatto il Cosmo 13, 10, 6 miliardi di anni fa.
Se ci manca ancora qualche fotogramma è perché non abbiamo ancora avuto il tempo (e le risorse finanziarie) per costruire la “macchina fotografica” adatta. Così non avviene nello studio dell’evoluzione biologica, per la quale dobbiamo basarci su reperti “morti”, i fossili, e non siamo in grado, almeno per il momento, di ricostruire con precisione le condizioni ambientali e gli eventi che hanno dato inizio alla vita. Nonostante queste difficoltà tuttora presenti, possiamo senz’altro affermare che l’evoluzione sia divenuta un carattere imprescindibile e inseparabile della realtà fenomenologica. Anche se la scoperta e la verifica scientifica del concetto di evoluzione sono relativamente recenti, queste si innestano su antiche radici di pensiero, che rinascono oggi con tralci rigogliosi i quali, uscendo dall’ambito della ricerca scientifica, invadono i terreni della filosofia, dell’antropologia, della teologia. Non dobbiamo meravigliarci quindi se l’incredibile e rapidissimo successo (in poche decine d’anni) del modello cosmologico ci abbia fatto, per così dire, insuperbire al punto da considerare la conoscenza scientifica come l’unica forma valida di accesso alla conoscenza della Verità. Scrive Stephen Hawking, notissimo cosmologo e divulgatore, nel suo libro “Breve storia del tempo”: «Comunque, se scopriremo una teoria completa, questa dovrebbe diventare comprensibile a tutti, non solamente da parte di pochi scienziati. Allora tutti, filosofi, scienziati e persone comuni, saremo in grado di prender parte alla discussione sul perché esistiamo e perché esiste un Universo. Se sapremo dare una risposta a quella domanda, allora assisteremo al trionfo finale della ragione umana – perché finalmente conosceremo la mente di Dio». Fermiamoci ora per un attimo e guardiamo al Cosmo e alla sua storia non da una prospettiva puramente scientifica, che contempla l’Uomo come una conseguenza, un prodotto, bensì da una prospettiva che parta dall’Uomo, che abbia come punto di partenza e di arrivo l’Uomo, da un punto di vista che oggi chiameremmo antropologico.
Il conflitto con il concetto di Creazione è antico ed è per così dire indipendente dalla conoscenza più o meno approfondita del Cosmo. Perché, mentre quest’ultima si evolve e assume, come abbiamo visto, sfaccettature inaspettate, una cosa l’uomo conosce da sempre: il suo limite spazio-temporale, la presenza ineluttabile della morte. Già nel VI secolo a.C. il Salmista scriveva (Salmo 8):
“Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?”
Meditando sull’apparente inadeguatezza, quasi estraneità dell’Uomo rispetto ad un Cosmo immenso e irraggiungibile, nasce nella tradizione ebraica, durante l’esilio babilonese, l’intuizione, o meglio l’ispirazione, di riconoscere in JAHVE, il Dio dei Padri che agiva nella loro storia, il Creatore di ogni cosa, del Cielo e della Terra, appunto. Questa intuizione, descritta in immagini attraverso il racconto mitico della Genesi, permette di sperare in una via d’uscita all’angoscia dell’Uomo di fronte all’immensità misteriosa dell’Universo. Di qui segue il Salmista:
“Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi;”
Non riesce però l’Uomo, da solo, a interpretare il significato profondo della creazione: a Giobbe che lo interroga insistentemente, il Dio del Primo Testamento risponde con lo sprezzante
“Ubi eras… – dov’eri tu quando ponevo i confini alla Terra e passeggiavo sul fondo del mare…”.
Bisognerà attendere il compimento della Rivelazione perché l’Evangelista Giovanni sia in grado di riprendere, con lo stesso incipit del libro della Genesi, “Bereshit – En archè – In principio”, il nuovo e definitivo racconto della Creazione, atto gratuito di auto comunicazione dell’Essente (“Io sono Colui che sono” aveva proclamato dal roveto ardente) che calandosi nello spazio-tempo offre alla sua creatura la possibilità di riconoscerne liberamente il significato – la Verità – e la Via per ottenere la Vita, con V maiuscola, ed uscire così dall’angosciante tunnel spazio-temporale della vita terrena.
Non c’è dubbio che se la Creazione ci fosse stata spiegata facendoci leggere e commentando il Prologo di Giovanni, molti conflitti tra Scienza e Fede si sarebbero potuti evitare. Ma è certamente più facile e rassicurante affidarsi all’affascinante racconto del “Fiat lux” e della creazione in sette giorni che inerpicarsi sulle algide pareti strapiombanti del Logos. Purtroppo, anche per banali motivi didattico-sociologici (dopo i giorni del catechismo, pochi rileggono la Genesi), è stato difficile allontanarsi da una interpretazione ingenuamente storica del racconto genesiaco. È abbastanza facile ora riconoscere gli elementi che stanno alle origini di un conflitto che, con connotazioni diverse ed alterni accenti, ci accompagna da quattro secoli: da un lato la difficoltà della Tradizione a far evolvere l’esegesi al passo con l’evolversi del pensiero scientifico, dall’altro la pretesa di quest’ultimo, alimentata dall’entusiasmante successo dei suoi risultati, di essere l’unica forma di accesso alla realtà oggettiva al punto da trasformarsi in alcuni casi in vera e propria moderna hybris – l’arroganza richiamata da Benedetto XVI pochi giorni orsono.
È giusto ricordare che Galileo, nella lettera alla Granduchessa Cristina di Lorena, riconosceva i limiti della nascente nuova scienza, la quale rinunciava esplicitamente a “tentar l’essenza” – ad indagare la natura dell’essere – e si limitava ad interpretare razionalmente – con le “necessarie dimostrazioni” le “sensate esperienze” – per usare le sue parole. Un limite che, dopo la Relatività di Enstein, il principio di indeterminazione di Heisenberg e il teorema di Gödel, è ancor più evidente oggi. Altrettanto chiaro era per Galileo come si dovesse interpretare l’azione dello Spirito Santo: «È l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia al Cielo, e non come vadia il cielo». Bisognerà attendere l’enciclica Providentissimus Deus di Leone XIII per trovare un primo accenno della moderna esegesi, purtroppo però subito stroncata nel 1905 dalla Pontificia Commissione Biblica del tempo. Finalmente la Costituzione “Dei Verbum” del Concilio Vaticano II, riconoscendo come direttamente ispirata tutta la Sacra Scrittura, definisce chiaramente lo scopo e la natura di questa ispirazione: “nostrae salutis causa”, unicamente per darci modo di trovare, oggi, durante la nostra vita, la via della salvezza. Ogni altro utilizzo della Scrittura Sacra, in particolare l’interpretazione letterale della Bibbia, è da considerarsi estraneo al concetto di “ispirazione”: come scriveva il Cardinal Ratzinger, allora Presidente della Pontificia Commissione Biblica, è da considerarsi quasi “un suicidio del pensiero”, o come inchiodarlo al pavimento della biblioteca, come l’ha plasticamente descritto Ermanno Olmi nel suo film “Centochiodi”.
Nonostante i notevoli progressi, soprattutto da parte esegetica, che avrebbero dovuto già rimuovere alla radice ogni possibile conflitto tra l’osservazione scientifica dell’evoluzione e il concetto di creazione, sussistono ancora due atteggiamenti, non conflittuali, ma precludenti un vero dialogo costruttivo. Li potremmo definire atteggiamenti di indipendenza, che considera la ricerca scientifica e quella teologico-esegetica come totalmente indipendenti e impenetrabili; e di “concordismo”, che tenta invece – disperatamente – di conciliare il quadro emergente dalle scienza con il concetto di creazione. Vedremo in un successivo intervento se e come è possibile superarli e avviare un fecondo dialogo.