Torna l’incubo dello tsunami e torna il ricordo di quei giorni dopo il Natale 2004, quando tutto il mondo ha drammaticamente imparato questo strano termine di origine giapponese (significa “onda del porto”) che poi è rimasto nell’immaginario collettivo e spesso è stato utilizzato come metafora per indicare altri eventi, anche non naturali, di tipo traumatico e catastrofico. Quello che si è abbattuto sulle isole Samoa la notte scorsa non è purtroppo metaforico e i suoi effetti devastanti hanno già prodotto perdite di vite umane e danni ambientali in quantità notevoli.



Ne abbiamo parlato con Nevio Zitellini, ricercatore dell’Istituto per le Scienze Marine ISMAR del Cnr di Bologna.

Cosa si sa dell’entità di questo tsunami?

Al momento non abbiamo dei numeri precisi abbiamo solo gli allerta che sono stati mandati dallo Tsunami Warning System del Pacifico e abbiamo i primi bollettini diramati dal centro. Il primo bollettino indicava solo il verificarsi del terremoto, ma già segnalava caratteristiche tali da far pensare allo scatenarsi del fenomeno tsunami. Infatti, ogni volta che si genera un terremoto in mare non si sa, inizialmente, se poi si verificherà uno tsunami: bisogna misurare, e per questo bisogna avere degli adeguati sensori, altrimenti è impossibile accorgersi se si è generata l’onda, che dapprima è molto piccola e difficilmente rilevabile. Oppure bisogna aspettare l’impatto con la prima linea di costa che le onde incontrano; ma in tal caso significa che l’impatto c’è già stato e i danni si sono già manifestati.



Il secondo bollettino infatti riferiva che i sensori hanno rilevato che si era generato lo tsunami; dava inoltre i tempi di arrivo calcolati per le varie isole interessate dall’evento.

Più o meno quanto tempo si ha per correre ai ripari dopo un allarme?

Il terremoto si propaga molto rapidamente e ci si accorge subito se si è verificato un grande sisma; gli effetti dello tsunami invece, dipendono dal suo tempo di percorrenza: se è dell’ordine delle ore, si ha tutto il tempo di fare verifiche e attivare i piani di emergenza. Il problema si pone in modo ben diverso se il generatore è vicino alla costa: in tal caso tra generazione e impatto possono passare pochi minuti e quindi le popolazioni non hanno tempo di reagire e restano indifese; nel caso delle Samoa, abbiamo calcolato che saranno passati tra i 10 e i 15 minuti al massimo. Non va trascurato inoltre il fatto che spesso vengono lanciati allerta per tsunami che poi non si verificano e così la gente perde la fiducia nel sistema di segnalazione e psicologicamente è indotta a non reagire con la dovuta prontezza.



 

Quella colpita era una zona a rischio? Il cataclisma era in qualche modo prevedibile?

 

Gli tsunami, come del resto i terremoti, non sono prevedibili. Quello che si può sapere; sono le zone a maggiore o minor rischio; sono zone collegate alla sismicità e quindi la mappa segue in qualche modo quella dei terremoti. La zona più soggetta a rischio tsunami è naturalmente quella del Pacifico; ma anche lo scontro tra le placche africana ed europea, benché avvenga più lentamente di quanto accade nel Pacifico, può generare terremoti e questi anche in mare

Devo aggiungere che qui stiamo parlando di maremoti di origine tettonica, cioè dovuti a bruschi spostamenti della crosta terrestre: questi sono circa l’80% del totale ma ci sono anche altre possibili sorgenti, che possono essere una frana sottomarina, o una frana subaerea ma col materiale che arriva in acqua, o ancora l’attività vulcanica sottomarina.  

 

Lo tsunami abbattutosi sulle Samoa si può considerare un fenomeno concluso o ci potranno essere ulteriori sviluppi nei prossimi giorni?

 

Nessuno è in grado di dire se ci sarà un altro grande terremoto fra poco tempo. Però ricordo che dopo lo tsunami indonesiano del 2004, a distanza di pochi mesi c’è stato un altro potente terremoto ma niente tsunami. 

Pensando alle minacce future, quello che possiamo fare è mitigare: cioè ridurre gli effetti del fenomeno, mettere a punto un sistema di allerta efficiente che sia in grado di dare segnalazioni affidabili e tempestive, istruire la popolazione, predisporre una segnaletica semplice e chiara. Prendiamo il caso delle nostre aree mediterranee: possiamo considerare tutte le zone pericolose che si conoscono e monitorarle con continuità. Abbiamo il vantaggio per questo di poterci appoggiare alla rete già attiva per i terremoti, che è molto ben organizzata.

 

Il vostro istituto sta studiando qualche particolare programma di mitigazione?

 

Per quanto riguarda le azioni di monitoraggio e segnalazione, solitamente si pensa di mettere in mare delle boe con dei sensori e vedere se da lì passa uno tsunami. Nel caso delle Samoa avrei dovuto avere delle boe collocate tra il punto dove si è generato l’onda e la costa dell’isola; ma non conoscendo a priori i punti di generazione, si sarebbe dovuto riempire il mare di boe del genere. Noi abbiamo pensato a una strategia diversa: quella di cercare di individuare i potenziali generatori e poi di sistemare i sensori sopra i generatori. Abbiamo quindi realizzato una sorta di tsunamometro, in grado di misurare i parametri all’avvio del fenomeno e di trasmetterli agli appositi centri.   Con lo tsunamometro quindi noi riusciamo a sorprendere lo tsunami nel suo inizio, una cosa che nessuno ha mai visto e che finora non è stato possibile descrivere e studiare.

 

Un’impresa difficile in effetti

 

C’è da dire che nei nostri mari, ad esempio nel Mediterraneo, la cosa è relativamente facile, mentre nel Pacifico è senz’altro più complesso. Ciò significa che ogni regione va difesa con modalità specifiche, mettendo in campo le tecniche e le metodologie più appropriate e adattabili all’insieme delle condizioni geofisiche e territoriali.