Il SuperAcceleratore è di ritorno: quattrocentotrenta giorni di lavoro duro è la distanza che ci separa da quel mattino del 19 settembre 2008 in cui bruciò una connessione tra magneti superconduttori e bruciò anche le speranze di un rapido – e quasi facile – avvio di una fase in cui avremmo osservato “cose mai viste”. Tutto concorreva a convincerci di avercela fatta. I successi tecnici durante la costruzione, i ritardi modesti (circa otto mesi, un’inezia per la complessità della macchina), la partenza folgorante del 10 settembre e anche il can-can mediatico con televisioni che corrono da tutto il mondo, Google che ci dedica il logo e anche la follia del mega-buco-nero! E invece…
Una connessione elettrica tra magneti superconduttori, il gioiello tecnologico prodotto di venti anni di ricerca e spina dorsale della macchina, che va in circuito aperto. Una connessione dicevamo, una parte non particolarmente difficile, anche se deve far passare 13mila ampère (quanto basta per alimentare bene una cittadina) dissipando meno di una lampadina da notte si fuse generando un arco. Lo capimmo dopo, era – banalmente – malfatta e il difetto non era stato rivelato dai tre livelli di sistemi di controllo. Il guasto di per sé avrebbe danneggiato in modo grave solo i due magneti della connessione e ci avrebbe bloccato per almeno 4 mesi. Grave, si, ma non gravissimo: invece una serie di eventi imprevisti ha generato una salita vertiginosa di pressione dell’elio superfluido, il prezioso liquido che tiene i 27 km di magneti a -271 °C (ovvero molto più freddi dello spazio siderale). La pressione (circa cinque volte più elevata del previsto) ha spostato i magneti da 30 tonnellate l’uno in un effetto domino che ha coinvolto circa 700 m dell’acceleratore.
Ai primi ingegneri scesi nel tunnel dopo due giorni la linea dei magneti sembrava disastrata. Che cosa fare? L’incredulità era sui nostri volti. Per molti sembrava uno scacco senza rimedio. Non solo è stato difficile capire tutto l’accaduto (una “task force” di trenta fisici e ingegneri ci ha lavorato per quattro mesi), non solo era difficile a progetto completato prendere delle contromisure adeguate per prevenire simili incidenti, ma soprattutto angustiava la sensazione di essere schiacciato dallo sbaglio, dall’errore. Abituati a essere sempre ai primi posti della corsa tecnologica, a “vincere” sempre, si diventa un po’ presuntuosi, quasi arroganti. E la cosa che costa di più è ammettere, semplicemente, di essersi sbagliati. Sì, anche nelle nostre equazioni o macchinari più complessi progettati con sofisticati FEM e CAD (Finite Element Models e Computer Aided Design) c’è posto per l’errore. Ecco, per trovare l’energia per rinascere occorre partire da questa salutare ammissione: l’errore è possibile, anzi probabile in un sistema cosi complesso. Solo mettendolo in conto si può limitare il suo effetto. Insomma abbiamo re-imparato la lezione del Titanic. Con un vantaggio: colpiti ma non affondati, come nella vecchia battaglia navale, abbiamo potuto ripartire umilmente dal riconoscimento degli errori e, con un lavoro di squadra notevole, abbiamo intrapreso la lunga marcia della risalita, lavorando lungo tre direttrici principali:
L’inventario dei danni: oltre 700 m ovvero 53 magneti da riportare alla superficie (dai 100 m sottoterra su cui si snodano i 27 km del tunnel); 39 da cambiare completamente, supporti criogenici da rifare, 5 km di tubo a alto vuoto da cambiare o ripulire a fondo nel tunnel; il rifacimento stesso del suolo del tunnel danneggiato.
La rimozione delle parti danneggiate con un meticoloso lavoro per assicurare la sicurezza del personale, la preparazione dei magneti di riserva (che per fortuna e anche per sana previdenza erano sufficienti, nonostante l’incidente fosse stato del 500% più devastante dell’incidente ragionevolmente prevedibile), i test a freddo in superficie e la re-installazione dei magneti nel tunnel.
La comprensione più esaustiva possibile delle cause e della dinamica dell’incidente e la messa in opera di tutte le misure per impedire questo e altri incidenti simili. Abbiamo installato un nuovo sistema di diagnostica circa tremila volte più sensibile e utilizziamo molto meglio il sistema che era già installato. Ora utilizziamo misure di precisione nell’elio superfluido, con una sensibilità di 0,01 °C su 100 metri di lunghezza. Non solo, ammaestrati dall’esperienza, abbiamo messo in opera anche misure per mitigare le conseguenze di nuovi possibili incidenti, come l’installazione di valvole di sicurezza e nuovi ancoraggi lungo i 27 km dell’anello: come dire che l’errore è sempre possibile, va messo in conto.
È proprio su questo vorrei porre l’accento: se l’errore, quindi il nostro limite, viene messo in conto come parte ineliminabile del nostro agire, allora le nostre energie sono libere per la costruzione, e questo rende meno sospettosi gli uni verso gli altri nella corsa a “smarcarsi” dalla colpa; tutto ciò permette quindi una dinamica di comune intento che veramente moltiplica le forze. E ciò ha permesso di non solo di risalire rapidamente la china (quando le previsioni di molti scettici raccontavano di due anni e più di stop) ma anche di far fronte alle conseguenze a lungo termine delle cause dell’incidente. La connessione fatta male è stata la spia di un design sbagliato che potrebbe funzionare solo se eseguito con una precisione impensabile su una serie di diecimila e con inevitabili pressioni logistiche e di tempo. Ora sappiamo che dobbiamo intervenire su molte altre connessioni in tutto l’anello prima che l’energia possa essere spinta al massimo.
Dopo l’avvio a fine novembre, a gennaio dovremmo essere al 50% dell’energia massima e poi potremo arrivare al 70%, che è comunque già cinque volte di più del record esistente, come a dire saremo subito in “terra incognita”. Ci metteremo un paio d’anni per arrivare al massimo dell’energia di collisione e, quando ci saremo, ci saranno certo altri problemi che ci terranno occupati: migliorare ancor più le prestazioni, aumentare la luminosità, cioè la potenza con cui si illuminano le zone oscure che andiamo a esplorare, e altro ancora..
Sono andato al Cern dall’Università di Milano nel 2001, proprio per condurre la progettazione e la costruzione dei magneti superconduttori: sette anni di lavoro duro ma un’avventura esaltante e umanamente appagante. Tuttavia, anche dirigere i lavori di riparazione e soprattutto motivare e tenere unito il team che ha condotto queste riparazioni è stata una vera esperienza. Quando ormai i team erano stati dimessi o ristrutturati, la loro ricostituzione su tempi brevissimi è stata altrettanto difficile del lavoro tecnico. Si tocca con mano che le motivazioni di corto respiro non tengono e l’entusiasmo artificiale della forza della volontà non regge. Solo la convinzione che niente è perduto, veramente, perché tutto ha un senso e uno scopo può trasformare una disavventura in una vera avventura, che senza bisogno di dimenticare una virgola della rabbia, della delusione, della fatica, ci sta facendo vivere l’entusiasmo della rinascita.