Si è da poco conclusa l’edizione 2009 del Festival della Scienza di Genova e, tra i numerosi appuntamenti e iniziative, vale la pena riprendere alcuni spunti dal dibattito svoltosi nella sala del minor consiglio del Palazzo ducale, promosso dal Centro Culturale Charles Péguy e da Universitas-University sul tema “Quale futuro per quale scienza. Metodo scientifico e ragione umana”. Hanno partecipato l’astrofisico Marco Bersanelli e chi scrive.



Che cosa è emerso? Nessuna dimensione conoscitiva, neppure la scienza, prescinde dal soggetto che ricerca, come ha mostrato uno scienziato e filosofo del calibro di Michael Polanyi. Le emozioni, in particolare la curiosità e la capacità di stupirsi, sono fondamentali nel tentativo di formulare ipotesi di spiegazione della realtà. Ma il confronto, il dialogo e la discussione con gli altri favoriscono la criticità e l’oggettività nella ricerca della verità. La scienza garantisce oggettività più di altre forme di sapere (poesia, filosofia ecc.), ma non si può dire che i suoi esiti siano più veri e più determinanti di quelli di altre dimensioni e discipline umane. L’equivoco è già all’origine del pensiero moderno: mentre per Galileo, padre del metodo sperimentale, la scienza non coincide con tutto il sapere e non è neppure il paradigma metodologico di ogni sapere, a partire da filosofi come Hobbes ogni sapere diverso dalla scienza deve conformarsi al paradigma scientifico.



Proprio perché la scienza per costituirsi come tale ritaglia aspetti e prospettive sulla realtà, grazie all’intervento di strumenti di misurazione, essa può essere più oggettiva su aspetti parziali, ma meno decisivi per l’uomo. Altre dimensioni e discipline (per esempio la poesia e la filosofia) trattano di aspetti e prospettive ineludibili e fondamentali, anche se più dibattuti, perché connessi con qualcosa che ci interessa in prima persona: il senso della vita. La filosofia, in particolare, si sofferma sulla totalità di un singolo essere e sulla totalità dell’essere nel suo complesso (cioè sul suo senso). L’uomo, per esempio, può essere oggetto di molteplici scienze. Non potremmo capirlo se provassimo a ridurlo alle sue componenti atomiche. Ma l’interdisciplinarietà non basta, anche se è importante per conoscerlo. Occorre, invece, una prospettiva sull’uomo nella sua totalità e ciò significa necessariamente considerarlo nella prospettiva della totalità dell’essere: che cosa ci stiamo a fare nell’universo? «Ed io che sono?» (Leopardi). Anche sostenere che non c’è una risposta a queste domande è già porsi su un piano filosofico e non meramente scientifico. Pure la cosmologia lascia aperti problemi metafisici sull’origine e senso ultimo dell’universo. Non è detto che l’essere nella sua totalità comprenda solo ciò che la scienza ci documenta e che si può osservare e verificare. Inoltre la pratica della scienza stessa implica che la realtà sia conoscibile, che vi sia una corrispondenza fra la nostra ragione e la realtà. Essa apre, quindi, inevitabilmente ad altre dimensioni quali la filosofia e la teologia.



 

D’altro lato non è vero, per esempio, che la filosofia non sia rigorosa e che non faccia progressi che pure le scienze riconoscono. Nel caso dei neuroni specchio, per esempio, sono state confermate intuizioni di fenomenologi come Husserl o Merleau Ponty. Per capire chi è l’uomo occorre in primo luogo osservare quali sono le sue reali capacità senza prima ridurle per meglio spiegarle sul piano scientifico. Alla base della stessa pratica scientifica v’è sempre il presupposto della conoscenza di noi e degli altri come realtà psicocorporee con cui interagiamo e dialoghiamo e che è oggetto di riflessione filosofica.

Un compito incombe, quindi, sulla razionalità umana: tenere insieme molteplici aspetti data l’ampiezza degli ambiti che è chiamata ad abbracciare, aspetti che talora sono stati evidenziati meglio nel passato. Non si sbaglia mai in filosofia e in genere nella vita perché si afferma qualcosa di radicalmente errato, ma perché si assolutizza un particolare: «Un uomo non può mai sbagliarsi completamente. C’è sempre qualcosa di vero nella sua conoscenza» (Kant). Di qui l’urgenza di educare l’intelligenza ad integrare molteplici aspetti. In quanto uomo, anche lo scienziato è chiamato, in un secondo momento, a ricomporre l’essere che ha oggettivato per meglio conoscerlo, svolgendo il cammino inverso rispetto a quello del metodo scientifico. L’unità delle scienze è innanzitutto, quindi, problema di unità della persona. Lo scienziato è anche un uomo e, quindi, in certa misura, anche un filosofo. Può essere un buon o un cattivo filosofo, cioè un ideologo, per esempio quando fa della divulgazione. Per unificare la vita ed il sapere è importante dare più peso (amare di più) a ciò che possiamo conoscere in maniera meno esauriente, ma è più determinante per la nostra vita. Come affermava Aristotele che ne Le parti degli animali, esaltando la conoscenza precisa della natura infima, valorizzava ancor di più quella più imprecisa delle realtà celesti «come una visione pur fuggitiva e parziale della persona amata ci è più dolce che un’esatta conoscenza di molte altre cose…».

Che la scienza e la tecnologia non costituiscano l’ultima istanza di giudizio traspare dal fatto che pure il problema morale del bene e il male si radica nell’esperienza umana prescientifica (che sempre precede e accompagna la stessa ricerca scientifica). L’esperienza umana, in ultima analisi, non può non giudicare anche la scienza e la tecnologia, perché queste nonostante i loro successi, non possono per loro natura fornire criteri morali. Esse ci offrono dei dati oggi imprescindibili, perché occorre essere bene informati per ben giudicare (e questo è un problema morale), ma non ci dicono mai che cosa sia bene e che cosa sia male. I progressi vertiginosi della tecnoscienza possono suggerire l’illusione che vi sia una conoscenza oggettiva “automatica” che ci dispensa dal confronto con la nostra coscienza. Contrariamente a quanto spesso si pensi la bioetica è più etica che scienza.

 

 

Lo scienziato, ma neppure l’attrice intervistata sono più competenti in campo morale di qualunque uomo. Anche se lo scienziato conosce meglio i dati, potrebbe essere un uomo dimezzato. Ciò vale anche per il filosofo. Il filosofo morale non è necessariamente più “morale”.

Spesso capita di sentire giudizi rozzi in campo religioso e politico da parte di scienziati e filosofi, di persone cioè che sono molto competenti e capaci di criticità in certi settori. La cosa, a ben vedere, non è strana. È un vizio dell’intelligenza quello di impegnarsi unilateralmente in ambiti specifici e affidarsi pigramente ad una fede acritica in altri campi. Come notava Wittgenstein, non v’è conoscenza senza presupposti. Ci affidiamo facilmente ad un fede acritica, quando impieghiamo tutte le nostre energie razionali in certi ambiti che ci danno soddisfazione e successo. Ma allora viene facilmente meno l’unità dell’uomo e, quindi, del suo sapere. Dal momento che non possiamo fare a meno di una fede, cioè d’infondere senso e unità alla nostra vita, la nostra fede dev’essere il meno acritica possibile.

Per affrontare i drammatici problemi etici posti dalla tecnologia, intimamente intrecciata al potere economico e che sembra suggerire che «tutto ciò che si può fare, si deve fare», non ci si può affidare passivamente alla stessa tecnologia, né solo a procedure “scientifiche” di risoluzione dei conflitti. Occorre cercare soluzioni il più possibili condivise sulla base di un confronto tenace con le fondamentali istanze umane. Di qui l’urgenza di educare ad una sensibilità umana integrale a partire dagli stessi ambiti in cui si comunica il sapere scientifico e tecnologico come la scuola e l’università.