Adesso che nei tunnel del Cern il super acceleratore LHC è ripartito, la curiosità cresce nell’attesa che le collisioni tra i fasci di particelle pesanti riescano a stanare il principale ricercato: il bosone di Higgs, cioè  la particella che dovrebbe farci capire la natura della massa che riempie l’universo. I passi di questa avventura sono puntualmente segnalati dal sito web del Cern ma rimbalzano subito su una miriade di blog in tutto il mondo: le informazioni quindi non mancano. Quello che può essere interessante aggiungere è una visione dello scenario nel quale agiscono i fisici delle particelle; come pure una sottolineatura della portata culturale dell’impresa e dei nodi concettuali che sottendono un progetto gigantesco come quello realizzato a Ginevra dalla comunità scientifica internazionale.



Uno strumento utile per esplorare queste dimensioni è il volume Gli anelli del sapere- INFN x LHC – Il contributo italiano alla più grande ricerca sulla fisica delle particelle al Cern di Ginevra, curato da Federico Brunetti in collaborazione con INFN, Cern e Politecnico di Milano; con i contributi di Roberto Petronzio, Pierluigi Campana, Sandro Centro, Maria Curatolo, Marcella Diemoz, Eugenio Nappi, Marco Paganoni, Lucio Rossi, Walter Scandale, Romeo Bassoli. Una sorta di visita guidata che parte dalle fasi di progettazione e costruzione di LHC, corredata da spettacolari immagini e densa di provocazioni che vanno dall’idea di design a quella di macchina e di esperimento. Ne abbiamo parlato con lo stesso curatore.



Come vede in LHC, e nella fisica delle particelle in genere, la compresenza delle due categorie di elementare e complesso?

 

Dal mio punto di vista, esterno alla fisica ma metodologicamente interessato alle modalità di rappresentazione della ricerca scientifica, pare di intuire un paradosso fondamentale: tanto la scienza si adopera a voler scoprire quello che già c’è, tanto cerca di svelare le dinamiche che fanno sì che la natura esista in quanto tale, includendo noi stessi che ne facciamo parte. Un tale percorso cognitivo che in verità accompagna la storia della scienza dalle sue origini, simile alle procedure cognitive insite nell’apprendimento infantile attraverso il gioco, è per sua natura sterminato, nella reciproca relazione tra il mondo scomposto nelle sue infinite o infinitesimali complessità; il soggetto, indagandolo, svela le proprie capacità di intelligenza in azione.



La Big Science ha dischiuso una nuova dinamica cognitiva a “rete” che permette di affinare le competenze dei ricercatori e pone le condizioni delle più disparate sinergie tra le conoscenze e i progetti. Nella ricerca contemporanea sono evidenti numerosi esempi di cross-science: dalle neuroscienze, alle genetica, fino alla profonda affinità che si sta verificando tra la macro-fisica astronomica e la micro-fisica delle particelle. Da questo punta di vista mi pare che la possibilità di un pensiero unitario o “elementare” sia non meno carico di un essenziale valore cognitivo di quello che esplori i versanti della alta complessità.

Nel progetto di un’impresa come LHC la complessità sembra dominante.

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Non è raro che anche i fisici teorici affermino di poter “vedere“ la forma delle soluzioni delle formule nelle proprie ricerche per poterle risolvere, almeno a livello ipotetico, giungendo ad una sorta di “visione” che ha caratteristiche non meno gestaltiche o di modellizzazione mentale di quella che elaboriamo per via oculare.

In effetti la ricerca di questa elementarità nelle leggi della natura rispecchia alcune non meno essenziali esigenze di osservabilità, di manipolabilità, e numerabilità che sono alla base della nostra condizione antropica di osservatori curiosi.

Queste considerazioni permettono di inscrivere i concetti di elementare e di complesso come interdipendenti e fondamentalmente relazionati al soggetto umano che li definisce. Certamente percuote ogni statico empirismo il pensiero di poter elaborare una macchina che, modificando le condizioni energetiche della materia permetta un viaggio, altrimenti impossibile alle normali condizioni terrestri, a ritroso verso le condizioni della materia allo stato originario del tutto.

 

Dalle pagine del libro emerge un altro interessante binomio: invisibile (le particelle) e visibile (il design e le immagini); cosa la colpisce di più in proposito?

 

Dalla invenzione galileiana del telescopio, attraverso le esplorazioni del microscopio o addirittura dalle macchina cinematografica, le percezioni ed i concetti stessi di visibilità hanno profondamente valicato una empirica concezione fisiologica della visione e, parimenti della invisibilità. Nel campo della capacità delle scienze sono entrate questioni di scala nella dimensione dello spazio, ma anche la possibilità di rivelare e dare forma non solo a oggetti ma a “eventi”, riconoscibili nella dimensione del tempo. In questo senso la questione della visibilità si fa nettamente contigua alle potenzialità della rappresentazione.

Nella cosiddetta “era dell’immagine”, esponenzialmente amplificata dalle tecnologie digitali, il problema di un eccesso di informazioni pare ancor più compromettere la possibilità di “farsi un’idea” grazie alla visione, o attraverso le immagini che la figurano. La macchina stessa di LHC, all’interno degli esperimenti che rilevano le collisioni, deve filtrare attraverso un potente “triage” i dati degli eventi che si presumono poter essere rilevanti. Ancora una volta si potrà vedere quel che è si è voluto trattenere. La visione, in altri termini, implica i gradi di libertà dell’osservatore: occorre rischiare un’ipotesi per verificare un’esperienza.

 

Questa tipologia scientifica di “visione” mentale prescinde radicalmente dalla comune esperienza quotidiana

 

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Certo. E precondiziona gli scienziati – una comunità “sui generis” ben al di là della specificità dei linguaggi disciplinari – introducendo sentimenti molto esigenti verso ciò che prosaicamente definiamo come “invisibile”, facendo leva su una libertà di coscienza di cui ognuno non può che continuare a interrogarsi.

Paradossalmente si potrebbe dire che l’invisibile stesso è ciò che continuamente chiama la scienza al suo compito di svelamento, ma tale compito è per sua natura incessante.

Date queste premesse la sfida nel fotografare l’esperimento in costruzione è stata particolarmente ardua e affascinante: si trattava di mostrare uno stato di temporanea visibilità interna di un meccanismo unico e irripetibile nel suo genere, ma che aveva senso non tanto per il colossale intreccio di tecnologie e competenze che lo avevano reso possibile, ma ancor più come l’interno dischiuso della forma in cui gli eventi della fisica avrebbero avuto luogo.

 

Il richiamo alla bellezza non è frequente in un’impresa scientifico-tecnologica: cosa l’ha spinta a metterla così in evidenza in questo lavoro?

 

La definizione di bellezza è sfuggente e poliedrica quanto la bellezza stessa, ma il suo sentimento è inequivocabilmente capace di animare la persona e il suo sguardo. In quanto “armonia delle parti” abbiamo ricevuto dalla classicità dei canoni su cui la cultura occidentale si è fondata nell’intuizione di un’essenziale assonanza tra la natura e l’uomo; secondo altri la bellezza nasce dalla necessità convenzionale di uno stereotipo, o dall’ordine delle leggi insite nella natura, per altri ancora lo stupore della sproporzione introduce al sublime.

A diverso titolo tutti questi fattori sono presenti in LHC: l’intuizione della possibile corrispondenza tra ipotesi teoriche – il Modello Standard – e la sua convalida sperimentale; la straordinaria coordinazione dei protocolli di ricerca e costruzione dei componenti degli esperimenti; la consapevolezza di usare la medesima natura per svelare sé stessa attraverso gli artifici della tecnologia; l’estensione estrema delle proporzioni che vanno dalla scala dell’infrastruttura sotterranea fino alla precisione nanometrica delle collimazioni negli esperimenti.

Tutto questo è inesprimibile se non nella possibilità di una esperienza diretta o di una letteratura scientifica, peraltro ampiamente accessibile agli esperti tramite il web; o forse, questa è stata la mia ipotesi, per il tramite di un visitatore che ha cercato e accettato il fascino della bellezza e la sfida questo viaggio al centro della conoscenza, agli “anelli del sapere”, attraverso un survey fotografico. Comporre e realizzare questo libro è stato per me semplicemente il tentativo di restituirne l’immagine, come un dono a questo epocale contesto scientifico che mi ha dato la sua fiducia, accogliendomi nel teatro della sua ricerca.

 

 

 

 

 

 

 

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